Articolo di Enrico Zoi per la rubrica “A tavola con” – Kurt Hamrin, ovvero Uccellino, uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. Svedese di Stoccolma, ha giocato anche, fra le altre, nella Juventus, nel Milan e nel Napoli, ma è una bandiera principalmente della Fiorentina, squadra con la quale ha realizzato 208 reti, diventando il più grande realizzatore di sempre della storia viola, e ha vinto ben 7 trofei, al punto da meritarsi di essere membro della prestigiosa Hall of Fame Viola del Museo Fiorentina.
Scopriamo oggi il suo lato enogastronomico insieme al figlio Piero Hamrin, che abita tuttora a Firenze, dove il Campione aveva scelto di vivere fino alla sua scomparsa, nello scorso febbraio, quasi novantenne.
I ricordi di Piero Hamrin
“Devo iniziare dai racconti della mamma [Marianne Hamrin] – esordisce Piero Hamrin -. Quando arrivarono a Torino alla Juventus, la mamma aveva 19 anni, papà 21. Era il 1956, per cui non c’era Internet, non c’era niente, c’erano i vocabolari che si portavano dietro quando andavano a fare la spesa, più che altro mia madre. La quale però non era abituata a questo tipo di spesa: allora in Italia per il pollo andavi dal pollivendolo, per l’altra carne dal macellaio, per il pesce in pescheria, mentre in Svezia c’erano già i supermercati. La mamma faceva fatica a esprimersi. Sì, c’era la mia sorella maggiore, Susanna, allora ovviamente bambina, che l’aiutava a distrarre le persone se ci metteva più tempo degli altri.
Un giorno, era disperata e disse a papà: ‘senti, se vuoi mangiare, d’ora in avanti la spesa la vai a fare tu’. Lei era sola in casa, mentre lui andava fuori per allenamenti, partite, viaggi, spogliatoi, quindi la lingua l’aveva già imparata di più. Con le trasferte a volte stavano via una settimana/dieci giorni, perché i trasporti non erano facili come oggi.
Insomma, mio padre accettò le condizioni della mamma, anche se, a Torino, a un certo punto era disperato e stava per tornare a casa. In questa situazione, si vide recapitare a casa uno scatolone enorme. Lo aprì e scoprì che era pieno stracolmo di cioccolata e che gliel’aveva mandato Umberto Agnelli. Forse un modo per dire che gli volevano bene. Il tutto accompagnato da una parola sola: ‘Coraggio’. Quindi, si capisce che la cioccolata a lui è sempre piaciuta! Non ne ha mai potuta mangiare tantissima, ma si è rifatto un po’ negli ultimi anni di vita, quando mangiava abbastanza sia caramelle sia cioccolatini!”
Aveva sofferto la differenza culinaria tra Svezia e Italia?
“Beh, anche se la Svezia ora è molto migliorata, allora la differenza era veramente grandissima. Oggi le distanze sono molto inferiori! Da Torino arrivarono a Padova, dove conobbero Giorgio Stivanello. Lì per loro iniziò una vita diversa e la mamma cominciò a cucinare meglio, anzi devo dire a cucinare bene! La mamma è una persona molto fantasiosa, anche ai fornelli. Imparò subito dei piatti che a papà piacevano molto. Uno era l’ossobuco con il purè di patate, poi i carciofi preparati tipo tortino o frittatina e il fegato alla veneziana, sicuramente arrivato a casa nostra dall’esperienza padovana e dall’incontro con il compagno di squadra Stivanello, che era veneziano. A noi ragazzi, a parte l’altra mia sorella Carlotta, il fegato non piaceva granché e mangiavamo altri piatti!”
I pasti casalinghi erano ‘sportivi’ o formali?
“Tutti sapevamo che all’una – orario chiaramente italiano, non svedese – si pranzava e alle otto la sera si cenava. Se uno non poteva venire doveva avvertire: ‘questo non è un ristorante’ era una frase che risuonava. Sai, con cinque figli, spesso capitava che qualcuno fosse accompagnato da qualche amico o amica, perciò eravamo sempre un numero abbastanza elevato, anche se sette non siamo mai stati, perché tra la mia sorella più grande e la più piccola ci sono quasi diciotto anni di differenza.
I miei genitori ci tenevano molto alla forma. Non avevamo i libri sotto le ascelle, ma a loro piaceva che mangiassimo educatamente. Anzi, secondo loro l’educazione si vedeva proprio a tavola, da come si mangia, si taglia la carne, si tengono le posate. Papà era un po’ rompiscatole, poi però, quando, a trenta/quarant’anni, arrivano i tuoi figli, capisci che quella educazione ti è rimasta e che quindi non era del tutto sbagliata”.
E con i pranzi o le cene natalizie, pasquali o di altre festività, come andava a casa vostra?
“In Svezia il Natale si festeggia la sera della vigilia. Quella del 24 dicembre è la cena importante. La mamma per tantissimi anni ha fatto il prosciutto: acquistava un coscio di prosciutto affumicato, che veniva lessato per due giorni a fuoco bassissimo, poi il giorno papà, che teneva alla tradizione, come la mamma del resto, lo assaggiava per valutare se fosse meglio o peggio dell’anno precedente. Poi il prosciutto si ricopriva di senape, ben massaggiato con la senape, quindi ricoperto di pangrattato e messo in forno. Molto buono!
Negli ultimissimi anni, i miei genitori mangiavano meno e non si è più fatto. Io ho preparato le classiche polpettine svedesi, che nascono da tre carni diverse (tutte di qualità e fornite da un mio amico macellaio): cinquanta per cento di manzo, il resto vitella e maiale. Si mescola tutto insieme alle patate lesse. Alla fine i miei fratelli e sorelle mi hanno detto che erano buone! Mia moglie è di parte e non conta!
A Natale poi c’erano le aringhe affumicate e i dolci: la tradizione svedese vuole che ci siano – mi sembra – sette dolci diversi. Nel salato, le patate lesse in Svezia non mancano mai. Si mangiano anche le alici, che vengono cotte in forno con il pangrattato, naturalmente con le patate! La cena natalizia in casa Hamrin era abbastanza abbondante. Poi c’erano gli snaps, ovvero i grappini e le acquaviti: si cantava e tradizionalmente si finiva tutto quanto ciò che c’era nel bicchiere. Bisognava stare attenti a non versare troppa roba nei bicchieri se no poi uno andava a casa sulle ginocchia!”.
Dai superalcolici passiamo al vino, che vi vede coinvolti direttamente, giusto?
“Siamo coinvolti però non direttamente. Ebbi l’idea per fare a papà un regalo di compleanno, il 19 novembre, di realizzare una bottiglia di vino con un’etichetta sua, personalizzata. Avendo io un amico che possiede una tenuta a Barberino Val d’Elsa, una buona zona, preparammo un vino che rispecchiasse i suoi gusti. Gli feci assaggiare tre bottiglie e gli chiesi di dirmi quale dei tre vini preferisse. Quando il vino fu pronto (certo non per il 19 novembre), papà se lo vide recapitare e capì che l’assaggio era il preludio al regalo di compleanno, anche se questo era già passato.
Poi il mio amico – Pierino di nome e di fatto anche lui come me! – mi disse che almeno 1500 bottiglie andavano preparate e così nacque il vino di Hamrin. Contattai degli importatori svedesi, ai quali chiesi se potessero essere interessati e… potenza del nome! Tieni conto che in Svezia c’è il monopolio, per cui il vino lo vendono nei ristoranti e lo devi bere lì. Se avanza non te lo puoi portare a casa come in Italia. Tramite questi importatori entrammo nel monopolio, si fece un po’ di pubblicità e così andò!
Poi si scelse il vino delle regioni dove papà era stato e dove è più buono (benché in Italia il vino sia buono dappertutto, sia chiaro): Piemonte, Toscana, Lombardia (con le sue bollicine…), Veneto e Campania. Prima feci il sangiovese, l’uva che a papà piaceva di più, essendo stati 9 anni qui a Firenze, città dove poi ha vissuto per tutto il resto della sua vita: il sangiovese era nelle sue papille gustative, lo faceva sentire a casa. Anche quando erano fuori era più facile che chiedesse un Chianti anziché altri vini”.
In generale, qual era il suo rapporto con il vino?
“Non si può dire che papà fosse un grande intenditore, ma gli piacevano i vini buoni e riconosceva un vino buono da uno cattivo”.
Al di là dei molti spostamenti per ovvie ragioni sportive, gli piaceva viaggiare?
“I miei andavano in vacanza tutti gli anni in Svezia, quando papà giocava, perché c’era la mia nonna materna che abitava in una casa vicino a Stoccolma. Poi, allorché la nonna se ne andò, fu chiaro che quella abitazione era troppo grande per tenerla vuota, così acquistarono una casetta nel bosco, una di quelle non abitabili in inverno perché viene chiuso il contatore dell’acqua per evitare rotture nei tubi. Ce ne sono diverse, frutto del socialismo svedese. Le persone d’estate ci vanno. Per l’appunto oggi, 21 giugno, in Svezia è la vigilia della Festa di mezza estate, quella che produce il maggior numero di nascite nove mesi dopo, e sono molto frequentate”.
Quindi per Kurt Hamrin viaggiare era tornare a casa?
“Tornava molto volentieri a casa, questo sì, e tornava molto volentieri a Firenze, perché Firenze per lui è stata la sua casa, forse anche di più della Svezia. Dopo la paura iniziale di Torino, quando stava quasi per tornare a casa, perché era spesso infortunato e non riusciva a giocare e a dare quello che poteva dare, arrivare a Firenze e stare qua…beh… Firenze è una città importante, che ti rimane, anche dal punto di vista culinario!
A proposito, mi dimenticavo un altro piatto che a papà piaceva moltissimo, la trippa alla fiorentina. Tornando ai viaggi, sì, papà ha girato il mondo, la mamma no. Papà, con la Nazionale svedese, è stato anche in Vietnam, in Cina! Erano avventure perché stiamo parlando degli anni ’50/’60. Insieme sono stati a New York, l’Europa credo che l’abbiano vista tutta… Parigi, la Spagna…”.
Viaggiando, papà era uno che assaggiava?
“Penso di sì. Ha sempre voluto che noi assaggiassimo e poi semmai dicessimo ‘no, grazie, non mi piace’. Non per partito preso, insomma. Bisognava assaggiare. E credo che anche lui sia cresciuto con questo tipo di educazione, quella del provare le cose. Mi viene in mente una cosa che non avevo detto prima. Al cavalcavia di piazza Alberti, naturalmente a Firenze, un tempo c’era un pescivendolo, che ogni venerdì regalava il pesce a papà magari in cambio del biglietto per la partita.
A caval donato non si guarda in bocca, per cui, spesso e volentieri, arrivava la trota, pesce piuttosto liscoso: a noi bambini non piaceva molto. Invece, a lui si vede che gli piaceva e se la mangiava volentieri. Poi, finita la carriera, si concedeva anche qualche frittura di pesce! Papà ha lavorato per anni con un ufficio di import/export, con le maggiori aziende svedesi, che spesso avevano compratori che scendevano in Italia e li portava in un ristorante che per me è un’icona di Firenze, il Latini, dove lui andava molto volentieri anche per festeggiare i compleanni. Ci si sentiva a casa. Anch’io, in occasione dell’ultima partita Fiorentina-Genoa, ho portato a cena lì 55 svedesi, dopo aver loro mostrato anche il Viola Park”.
Chi era Kurt Hamrin?
“Era una persona di pochissime parole, molto taciturna. Con lui io ho avuto un rapporto particolare: sia perché primo maschio, sia perché crescevo mentre lui cresceva come calciatore. Ho vissuto il suo essere calciatore. Da noi figli non ha mai preteso che diventassimo chissà che cosa, per cui non ho mai avuto da lui la sensazione che volesse che facessi il calciatore. Posso dire che ogni tanto si arrabbiava un po’ troppo, però poi gli passava abbastanza velocemente.
Deve avere avuto anche lui un’educazione abbastanza rigida, che ha ritrasmesso a noi. Però, in un’epoca in cui un ceffone dai genitori ai figli arrivava, lui non me ne ha mai dato uno. Gli bastava poco per farsi rispettare. Lo ricordo come una persona buona, che si è fatta voler bene da tutti, specie a Firenze. A febbraio, alla camera ardente, io e i miei fratelli non abbiamo avuto un attimo da soli per due giorni dalla gente che c’era. Ho visto persone piangere che ho dovuto consolare io. Evidentemente qualcosa ha lasciato. E non solo come calciatore, anche per la sua correttezza. Quante pedate avrà preso in campo? Eppure, 400 partite in serie A e nessuna ammonizione!”
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