“Fiorentini per sempre”, antologia di racconti su Firenze curata per Edizioni della Sera da Paolo Mugnai, è un libro che mi coinvolge direttamente. Innanzi tutto, perché è dedicato a Firenze, la mia città natale, che adoro. Poi perché fra gli scrittori presenti ci sono diversi (bravi) amici. Infine, perché l’ultima narrazione, quella che chiude il libro, è mia. Però tutto questo, in realtà, non c’entra molto. “Fiorentini per sempre”, infatti, merita la lettura per la sua ricchezza, per i molti punti di osservazione sulle strade, i personaggi, i ricordi, le curiosità, le storie di quel ventaglio di poesia che è, sempre e comunque, Firenze: un libro aperto, un poema in fieri, un castello di parole e suggestioni da alimentare e rinnovare quotidianamente. Nel bene e nel male. E forse un po’ anche al di là…
In un simile florilegio di emozioni, c’è tanto da servire in tavola!
Per non fare torto a nessuno, seguirò le citazioni enogastronomiche di questo bel libro grosso modo in ordine di pubblicazione, in una sorta di itinerario nell’itinerario già descritto nei testi. Con qualche deviazione. E, se mi scorderò qualcosa, gli amici mi perdoneranno. Almeno spero!

Sarà un caso che il primo alimento a essere nominato sia il pane? Probabilmente sì, ma è un ‘caso’ parlante: la “fetta di pane in più” di “Emma, il coraggio di una fiorentina”, di Luca Anichini, spesso sostituita “da un’affettuosa carezza”, ci conduce alla base della vita, della famiglia e del censo. Ogni cosa parte dal pane. Un accenno che, un paio di pagine dopo, si arricchisce e diventa emozione e ricordo: “Nelle case coloniche fare il pane era un rito che si svolgeva una volta alla settimana, in un grande forno a legna posto ai margini dell’aia. Nel periodo autunnale le massaie oltre al pane infornavano la schiacciata con l’uva, l’impasto del pane veniva disteso e sopra ci venivano messi i chicchi d’uva e talvolta qualche noce, Emma avvertiva il profumo da chilometri di distanza e ne era veramente ghiotta”.
Nello stesso racconto, menzione speciale per il “piatto di papero in umido accompagnato da bicchieri di vino”.
Firenze, il vino e i Caraibi
Vino che, nella ‘Lettera di un botanico fiorentino sul fiore cadavere”, di Jacopo Berti, diventa un invito tra l’onirico e il malinconico da un padre al figlio: “brinda col nostro vino ai sognatori per quanto possano sembrare folli!”. C’entra poco, forse, ma questa frase, con un libero accostamento del pensiero, mi ha rimandato a un verso di “Figlia”, grande canzone di Roberto Vecchioni: “Vorranno la foto col sorriso deficiente,/diranno: “Non ti agitare, che non serve a niente”,/e invece tu grida forte,/la vita contro la morte”.
Piccolo ritorno al futuro nel racconto precedente, “Capodanno a Firenze”, di Lapo Baglini, dove, in una Firenze più attuale, si trasforma anche il menu, con alcune apparizioni meno tradizionali, come il “naseberry, un frutto che ha la forma di un avocado ma dalla buccia grigia e la polpa rosa”. Per poi imbattersi in una cena in cui i protagonisti mangiano “dell’ananas dolce nell’attesa dei pesci arrostiti su cui stavano spremendo il succo di alcuni lime piccoli, verdi e rugosi”. D’altronde, siamo nei Caraibi!

La cena di classe e il caffè
Nel racconto “In una notte di febbraio”, di Alessandro Bini, compare l’appuntamento fatidico della cena di classe, una di quelle che fa tornare le persone, o per lo meno chi c’è ancora, a riunirsi dopo anni e anni. Insomma, il cibo passa in secondo piano. Contano solo le situazioni. E che situazioni!
Il caffè! Poteva mancare? Fiorentini o no, è un elemento fondamentale delle vite di tutti gli italiani, con il suo carico di vissuto e di sentimenti. Ce lo presenta Roberta Capanni, nel suo “Dikka e l’alluvione” (sì, quella di Firenze del 1966): “‘Vi dico che è la fine del mondo’ raccontava Saverio, con tutta l’eccitazione di un adolescente, alle due donne in vestaglia. Una di loro stringeva una tazzina tra le mani, seduta su una sedia di metallo e formica verde, in quella cucina ormai satura dall’odore dei tanti caffè fatti e bevuti. Dal soffitto il lampadario di vetro a fiori con il neon circolare spandeva una luce bigia che sbiancava i volti di adulti e bambini”.
E poi, ne “L’uomo di Firenze”, di Giacomo Cialdi, arriva la ribollita. Che Firenze sarebbe senza la ribollita? Ribollita che, nel racconto, ha un ruolo da saggezza e pragmatismo popolari, un richiamo all’ordine verso la realtà delle cose della vita per una signora che immaginava di essere un “porto sicuro” per un misterioso passante: “Venvia porto sicuro, datti una spicciata e chiudiamo… voglio tornare a casa. Marco mi ha preparato la sua ribollita”.

Le pere cotte
Il racconto successivo, “Il venditore di pere cotte”, di Paolo Ciampi, al di là del titolo che miscela sapientemente street food e giornalismo, è ricco di menzioni enogastronomiche: “‘Pensa te, con i giornali che la sera sono buoni per incartare il pesce’ lo provocai una volta. E lui: ‘Bene, se servono anche per il fritto servono due volte’”.
C’è poi una cena decisamente sui generis in un pub di Firenze: “Scolava birre e chiacchierava. Si fermava di tanto in tanto solo per ingurgitare qualcosa. La sua cena, terribile. Era l’unico che osava accompagnare una pinta di scura con il muffin. Roba che in confronto sembrano sane le mie patatine cipolla e cheddar. Lui spazzolava il muffin e riprendeva”. Per poi vedere, fuori dal pub, “una collinetta, sì, proprio lì dove si parcheggia, una collina dove i fiorentini venivano per la gita fuori porta, pane salame e fiasco di vino”.
Per la cronaca, la birra e un pub torneranno in “Per sempre?”, di Tommaso Meozzi. E il peracottaio? Beh, quello vero, che non sveliamo, era un “venditore ambulante di pan ramerino e castagnaccio, ciambelle e frittelle, soprattutto pere cotte”.
Torna subito il pan di ramerino. Nel racconto “Grande cervo in una palude”, di Camilla Cosi, la protagonista è, da giovane, una pittrice di strada che lavora davanti agli Uffizi: “Rosalba, la fornaia di via dei Georgofili, mi portava nell’ora della merenda, un pezzo di schiacciata o pan di ramerino.

Piazza della Passera e altre storie
Finché non si arriva in “Piazza della Passera”, il contributo di Livia Fabruccini, con la sua osteria-tripperia: “Ed eccomi in piazza della Passera, nella tripperia. Nella penombra che profumava di vino, di interiora bollite con sedano e carote, di pepe e di cipolle. Mi avvicinai al bancone, le briciole del pane scricchiolavano sotto ai piedi”.
Con “Maggio e il risuono dei tic tic”, di Nadia Fondelli, abbiamo il primo abbinamento calcistico: “In viale dei Mille c’era il bar del caffè caldo del mattino col quotidiano sottobraccio e qualche collega con cui discutere di tattica. C’era il ristorante ‘del solito tavolo’ con la pastasciutta preferita. C’era stata la corsa indimenticabile di Desolati per scappare dai tifosi inferociti”,
E dopo il “menu in francese e in inglese del Mayflower”, ne “Il fantasma dell’Hotel Mayflower”, di Alessandro Lazzeri, arriva la “famosa nevicata dell’85”. Ce la rammenta Luca Lunghini in “Arno, specchio di ricordi”. Con quell’eccezionale evento atmosferico, ben vivo nella mia memoria, entra in “Fiorentini per sempre” anche la calza della Befana: “Il giorno dopo, per la Befana, decisero di portare le calze in riva all’Arno per gustarsi la cioccolata e gli altri dolciumi mentre camminavano in mezzo alla neve”.
In “Dove fu bella giovinezza”, di Francesco Luti... “benché non fosse più l’ora del desinare, pranzarono con melone e prosciutto davanti alla vallata stesa ai piedi e la piscina sullo sfondo”, un’immagine che si stempera in una sorta di spleen, quando Vasco si sospende in questa piccola emozione: “Il pane abbrustolito non aleggiava più, e invano con l’olfatto lo ricercava poiché era sinonimo di sua nonna”.

I luoghi e il cibo
L’accostamento tra luoghi e cibo, già trovato in precedenza, torna ne “La magia di Firenze”, di Giulia Mastromartino: “Santa Croce significa soprattutto Mario, il barista che le fa da sempre un fantastico cappuccino e le tiene da parte il cornetto integrale col miele che la conforta sempre nei momenti di bisogno. Questo è decisamente un momento di bisogno. ‘Ecco la mia stellina’ esclama Mario quando la vede entrare e inizia ad armeggiare per prepararle la colazione ‘ed ecco il tuo solito’. Le porge davanti un piattino con un invitante croissant e un altro con una bella tazza fumante”. Un altro cornetto appare in “Punto con schiacciata”, di Pier Vincenzo Monaci, sempre all’insegna dei ricordi rassicuranti: “Penso già al mio arrivo a Firenze, allo studio TV che ben conosco e al cornetto che avrei gustato al mio bar preferito a due passi dal parco del Giardino dell’Orticoltura”.
Stacco cinematografico senza dissolvenza e, ne “La mia Maratona”, di Francesco Matteini, andiamo con pizza e birra fra amici! “‘Siamo al prato del Quercione’ mi dice. ‘Ho dei bei ricordi’ rispondo. ‘Qualche fidanzata?’ chiede lei con tono insinuante. ‘Macché fidanzata! Una partita di calcio con quelli della V B, in palio pizza e birra”. E poco più avanti, nel bel mezzo della corsa si apre un dibattito culinario dove, come la pallina di una partita di ping pong, si alternano sugo, soffritto, intingoli per il pranzo, cappuccino, cipolla, ribollita, penne strascicate, bistecca, pappa al pomodoro e, per chiudere in bellezza, “dei pici su i’ papero da urlo”! La pappa (“inzuppo il pane croccante nella pappa al pomodoro”) tornerà nel già citato “Punto con schiacciata”, di Monaci.

Il Lampredotto
Tocca al curatore dell’antologia, Paolo Mugnai, nel suo struggente “Caccia al tesoro” introdurre un must della cucina fiorentina, il lampredotto: “Mangia un panino con il lampredotto. Bene! Anche questa è facile! Eccolo là, un trippaio. Sta servendo due giapponesi a cui intercala una mezza bestemmia tra un sorriso e un inchino nel porgergli il panino grondante di fiorentinità. Strizza l’occhio al compare seduto all’angolo che sorseggia un bicchiere di rosso mentre mi accoglie quasi vociando: ‘Gooood morning Amerihaaaa… do you want lampredotto!?’ ‘Grazie, figliolo’ lo sorprendo. Tagliuzza con veloce sapienza il quarto stomaco del vitello e bisbiglia, quasi: ‘Normale!’ Faccio cenno di sì con la testa e, senza dire altro, insieme al panino a cui ha aggiunto sale, pepe e salsa verde, mi allunga un bicchiere di Chianti”.

La nostalgia della Firenze che fu…
Infine, ci sono io, con il mio racconto ‘Sulla soglia’. La prima citazione è nostalgica: “Poi arriva il piazzale Michelangelo, con il suo panorama e, soprattutto, la memoria adolescenziale di un pranzo al ristorante, con lo zio e l’amico del cuore, in cui la vista era felicemente oscurata da un vassoio di patate e porcini fritti: sembrava un tempio greco, tanto era bello e imponente! Uno di quei pranzi con lo zio che di tanto in tanto, lieti come un compleanno da festeggiare e saporiti come una bistecca alla fiorentina accompagnata da fagioli e Chianti, si ripetevano nella sua vita da ragazzo”. La seconda decisamente golosa e campanilistica, nonostante le apparenze: “E i gelati? Mai stato campanilista (o quasi), ma la qualità e i gusti che si trovano a Firenze non esistono da nessuna parte: il Buontalenti, il croccantino al rum!”. Per inciso, ho la stessa opinione sull’olio extravergine di oliva…
Con questa automenzione si chiude il viaggio enogastronomico tra le pagine di “Fiorentini per sempre”, che scorre allettante ed emozionale come le storie che racchiudono i menu, le colazioni, le trattorie, le pietanze, i bicchieri di vino di questa antologia davvero ricca di portate. In tutti i sensi.
“Fiorentini per sempre”. Il libro è servito.