Articolo di Enrico Zoi per la rubrica “A tavola con…” -Poche settimane fa ho visto su RaiPlay il bel documentario di Angelo Longoni Milva, diva per sempre , del 2024, un lineare ritratto biografico della grande artista di Goro.
Le sue splendide interpretazioni di canzoni di ogni genere, la dizione bellissima (oggi quanto manca!), il fascino, le grandi collaborazioni con i Maestri della musica, del teatro, della letteratura… devo saperne di più, mi sono detto!
E di più ho appreso grazie alla diretta testimonianza della figlia di Milva e di Maurizio Corgnati, Martina Corgnati, oggi storica dell’arte e autrice del libro Milva, l’ultima diva (La Nave di Teseo, 2023). E, come sempre, condivido.

Martina Corgnati e Milva nell’estate del 1981
A tavola con Milva
“Mia madre era un’ottima forchetta – esordisce -. È sempre stata una persona amante del buon cibo e della tavola. Benché fosse una persona molto impegnata e avesse sempre poco tempo, non ha mai adottato modalità alimentari del tipo ‘andiamo al bar a prendere velocemente una cosa. Ha sempre amato un rituale conviviale che le permettesse di gustare il cibo”.
Quali pietanze le piacevano?
“Tante e diverse. Nel periodo in cui era con mio padre, aveva lui che era un ottimo cuoco, un appassionato di cucina e di convivialità: anni in cui ci fu proprio un momento di esplorazione del gusto. Mio padre amava cucinare alla piemontese, perciò carni di ogni genere e arrosti. Mia madre aveva una particolare predilezione per il coniglio in civet, una ricetta tipica del Piemonte con coniglio e acciughe. Tanto che mio padre, in quegli anni, l’aveva battezzata ‘il civet alla Milva’.
Amava anche i risotti, ma la sua massima preferenza andava ai gusti dell’infanzia, quelli che le venivano dalla sua origine emiliana, del delta del Po. La mia nonna materna cucinava in maniera più tradizionale, con quelle pratiche che ancora esistevano nell’Italia, se mi consente, rurale della metà del secolo scorso.
Per esempio, ogni sabato mattina, anche quando io ero già grandicella, era sua abitudine tirare sul tavolo la sfoglia per fare la pasta fresca, come si usava in Emilia. Ne ricavava delle cose deliziose: maltagliati, tagliatelle, tortellini. La mamma andava matta per alcune ricette tipiche del delta del Po, come le anguille in umido, oggi poco usuali. E poi le canocchie, o cicale che dir si vogliano: crostacei di sabbia particolarmente amati in quelle zone, che mia madre adorava! La nonna li faceva in umido, con il pomodoro. Erano preparazioni molto lunghe, proprio tradizionali, buonissime”.
Sua madre ha viaggiato tantissimo per lavoro, quindi avrà anche assaggiato piatti della cucina internazionale…
“Aveva un debole per la cucina del Giappone, dove era stata molte volte. Nel corso di questi viaggi, frequentava il più possibile i ristoranti e le ricette che poteva trovare: tetayaki, shabu shabu, sushi, sashimi. Questi piatti oggi sono noti, ma lei cominciò ad andare in Giappone sessant’anni fa e più! E adorava queste esperienze gastronomiche. Era molto aperta all’avventura del gusto e quindi disponibile a tali dimensioni”.

Milva con Claudio Villa e Nicola Arigliano
Con il bere come andava?
“È sempre stata una persona moderata con il bere e ha sempre amato il buon vino. Bianco o rosso, bollicine (come si dice adesso!), buoni spumanti e champagne, ma soprattutto un buon rosso. A casa nostra, quando ero piccola, si acquistava Nebiolo e Grignolino direttamente dai produttori piemontesi. Lei ne beveva un bicchiere o due. Naturalmente, alla cucina giapponese, abbinava un delizioso tè verde e, a fine pasto, una tazzina piccola piccola di sakè caldissimo.
Non ha mai indugiato nell’alcool né bevuto aperitivi nel senso dei cocktail tipo gin tonic: la stordivano, la stancavano e non le piacevano. Era una persona molto rigorosa, che aveva bisogno di mantenere una notevole efficienza fisica, quindi amministrava il suo tempo in maniera ponderata. Non l’ho mai vista, non dico ubriaca, ma neanche alticcia.

Milva nel 1970
Per esempio, quando lavorava, e finiva gli spettacoli alle undici, in tournée, perciò lontana da casa, in albergo, quello che faceva era farsi mandare in camera una piccola tazza di brodo, magari con qualche crostino, che consumava da sola a mezzanotte, poi faceva il bagno e andava a dormire fino alle dieci/undici della mattina dopo, perché la sera successiva cantava di nuovo. Le tournée sono massacranti. Spesso le persone al di fuori del mondo dello spettacolo non sanno che alle volte quaranta date si fanno in cinquanta giorni e il cantante riposa un giorno ogni tre o quattro e nel giorno di riposo spesso viaggia”.
Aveva uno o più ristoranti preferiti?
“A Milano, dove lei abitava e dove oggi ha sede la fondazione da me costituita, Insula Felix, frequentava Il Bagutta, se capitava; andava da Bice e, negli ultimi vent’anni, al Diana”.
I pranzi familiari tradizionali – Natale, Pasqua – come si svolgevano?
“Sempre a Torino con la sua mamma, che ha cucinato finché ha potuto. Dopo ci si organizzava, però il menu, se possibile, era quello: tortellini, tacchino o cappone. A Natale era così. A Pasqua non sempre ci trovavamo. A Natale, finché c’è stata la mia nonna, sempre da lei e a pranzo il 25 dicembre. La mia nonna è morta nel 2007, novantacinquenne”.
Ma Milva cucinava?
“No. La mia mamma non aveva mai imparato e non le piaceva perché si sporcava la cucina. Aveva un sentimento dell’ordine assolutamente rigoroso, molto forte. Non era proprio brava a cucinare, era priva del senso degli ingredienti, né aveva pazienza per le trasformazioni che il cibo richiede. Amava moltissimo essere messa a tavola in una situazione giusta, ma non era in grado di cucinare!”.
Aneddoto finale?
“Quando ero adolescente, facevo il liceo e pranzavamo insieme (abbiamo abitato alcuni anni da sole), sedendosi a tavola a pranzo, non permetteva che le venisse passato il telefono: fino al caffè no telefonate. Rispettava il rituale del cibo e delle parole che lo accompagnano, spesso l’unico momento in cui le persone, in una famiglia, per quanto piccola, si ritrovano per poter scambiare, appunto, due parole”.