‘La spiaggia’, di Cesare Pavese.
Prima della spiaggia viene la premessa. Inizia una nuova rubrica, una piccola idea che nasce dalla lettura, dal fatto che i libri, come scopriamo ogni volta, sono viaggi imprevedibili e, insieme, dal gusto, anche enogastronomico, che proviamo assaggiandone pagine e parole.
Il libro è servito, perché è come una pietanza o una bevanda che la realtà offre al nostro palato. E poi è servito perché un libro, beh… un libro serve. Serve sempre!
Comincio con ‘La spiaggia’, romanzo breve di Cesare Pavese, composto a cavallo tra 1940 e 1941, un testo già affrontato da ragazzo, che oggi mi ha affascinato ancora per la sua concretezza nell’apparente impalpabilità.
Sul mare, in vacanza, trascorrono uomini e donne, ragazze e ragazzi, amiche e amici, coniugi e amanti, che hanno la fluidità del tempo che scorre e, nel farlo, muta in continuazione e, contemporaneamente, sono più solidi e veri della roccia.
Se questa presunta contraddizione agìta sul litorale estivo è la realtà, il grande scrittore piemontese l’ha insieme dipinta e fotografata con sottile psicologia e delicata maestria.
In tale gioco di sfumature, chiaroscuri e illuminazioni, anche la componente enogastronomica – presente, sebbene non in primo piano – rivela davvero quanto un libro possa essere specchio dei tempi. E comunque andare al di là di essi.
Non ci sono pietanze ne ‘La spiaggia’, nessuna descrizione di piatti, ricette, tavole imbandite. L’epoca, d’altronde, a seconda guerra mondiale già iniziata, non doveva essere delle migliori da questo punto di vista (benché il peggio dovesse ancora venire).
Tuttavia, nessuna omissione o trascuratezza. Né è un caso che, analizzando la sua opera omnia (sulla quale probabilmente torneremo), Pavese si scopra un piccolo grande testimonial della cucina della sua regione.
Ma torniamo a ‘La spiaggia’, dove, se i pasti e i luoghi – la cena, la colazione, la trattoria, il caffè – sono (apparentemente) anonimi, semplici menzioni, come il liquore, la bibita o il marsala, in realtà essi si insinuano sempre e significano. Significano molto.
Penso al vino dell’ubriacatura fra amici del primo capitolo, il cui ricordo – presenza sottile – tornerà più volte nelle pagine del romanzo a indirizzare emozioni e discorsi dei personaggi principali.
L’odore si “respira” tra le pagine
Penso all’odore di fritto… “Quella sera sporsi il capo nel pianterreno, donde veniva uno stridente odor di fritto, e ci vidi dei bambini, una donna col fazzoletto in capo, un letto sfatto e dei fornelli”. Sembra un quadro e la mente liberamente va, fra i tanti ricordi e le mille possibili citazioni, all’opera del pittore secentesco olandese Pieter Gerritsz van Roestraten “Interno di cucina con scena familiare”.
Penso alle more causa di un incidente… “La gita di quel giorno – c’eravamo tutti, sull’automobile di Guido – ebbe un esito disgraziato, perché una delle donne, una certa Mara, parente di Guido, per raccogliere delle more scivolò da uno strapiombo e si fiaccò una spalla”.
Penso, infine, alle noci e ai fichi secchi di un’infanzia passata… “Ero una bambina troppo giudiziosa, – diceva Clelia desolata. – Pensavo che l’indomani se papà fosse diventato povero all’improvviso e si fosse incendiata la cucina, non avremmo più avuto da mangiare. Mi ero fatto nel giardino un ripostiglio di noci e di fichi secchi, e aspettavo che diventassimo poveri per offrire a papà le mie provviste. Avrei detto al papà e alla mamma: ‘Non disperatevi. Clelia pensa a tutto. L’avete castigata, ma lei adesso vi perdona e non fatelo più’. Com’ero scema”.
Il vino, il fritto, le more, le noci, i fichi secchi penetrano nella narrazione come ingredienti vivi, piccole cause del movimento cosmico che genera e arricchisce trama e personaggi. Essenziali, dunque.
‘La spiaggia’, di Cesare Pavese. Il libro è servito.
[…] Il libro è servito, a cura di Enrico Zoi […]