Articolo di Enrico Zoi per la rubrica “A tavola con…” – Erminio Macario è uno di quegli artisti che hanno dolcemente invaso il mio immaginario di bambino. Data l’età, un immaginario prevalentemente cinematografico e televisivo (rimpiango il teatro), sufficiente però a imprimere nella mia mente l’ovale inconfondibile del volto, l’irresistibile sorriso, l’eleganza recitativa.
Durante l’ultima edizione dell’Amarcort Film Festival di Rimini (dicembre 2024), nella locale prestigiosa Cineteca, ho avuto l’occasione di presentare a un folto pubblico il bel cortometraggio autobiografico Solo i fantasmi sognano, diretto dal figlio Mauro Macario e da Andrea Castagna. Era mai possibile lasciarsi sfuggire l’opportunità di intervistare il primo sul suo grande padre?

Il piccolo Mauro insieme al papà Erminio Macario
Mauro Macario ci racconta suo padre a tavola
“Ho l’immagine di papà a tavola praticamente per 365 giorni su 365! Da giovane – spiega Mauro Macario, che è regista, drammaturgo, poeta e scrittore -, insieme a lui, ho girato come attore nelle sue riviste. Da Trieste a Catania, per otto mesi ogni anno: grandi città, province e paesi, da settembre ad aprile. Nei centri maggiori venti giorni, nelle province il weekend e nei paesini una serata. Di giorno si viaggiava.
Pensa che tipo di conoscenza e rapporto poteva avere lui con la fantasia e l’inventiva gastronomica italiana! Da nord a sud, isole comprese, aveva assaggiato ogni cucina per tutta la vita. Solo che papà non era – come, ad esempio, Ugo Tognazzi – estremamente goloso o – come Aldo Fabrizi – molto mangione. Il suo rapporto con la tavola era piuttosto pulito e morigerato. I piatti troppo grassi, fritti ed elaborati non lo acchiappavano per niente.
Forse perché la vita dell’artista lo portava spessissimo a pranzo e a cena fuori e non tutti i ristoranti erano buoni: con il passare degli anni, puoi anche non beneficiarne. In realtà, però, era così da quando ero adolescente: morigerato e prudente. Anche in famiglia, ma con più fiducia verso le cuoche, perché la mamma e la nonna, piemontesi, erano straordinariamente brave. Lui, no, non cucinava”.
Quindi, qual era la dieta di Erminio Macario?
“Pastasciutta, intesa come spaghetti; anzi, lui diceva, da delicato piemontese, spaghettini. Non troppo conditi: al pomodoro o in bianco. E poi la carne: era – ahimè, perché io sono un animalista – un carnivoro, quindi filetto poco cotto da tagliare e sfaldare con un filo di coltello. Gli artisti come mio padre – ed erano tanti -, che avevano avuto un’infanzia di povertà popolare a minestra e patate, erano poi cresciuti con l’idea che la carne fortificasse e facesse sangue; oggi, invece, a partire da Umberto Veronesi, che per primo lanciò l’allarme, si predica poca carne, non rossa, meglio bianca, tacchino, coniglio, vitello.

Erminio Macario e Totò
Mio padre però amava la carne. La sua dieta era pastasciutta e carne. Verdura poca. Era un contorno ‘tecnico’ di ogni piatto: patate, spinaci, purè. Ricordo che in casa la mamma faceva lo spezzatino di vitello con le patate e il pomodoro: carne tenera, se no lui non la mangiava. Il pesce è arrivato poche volte davanti a miei occhi per papà. Il nostro piacere era la sogliola ai ferri: la mugnaia era molto elaborata e condita, ai ferri era più pulita.
Teniamo conto che si mangiava dopo lo spettacolo, quindi tutta la compagnia cenava a mezzanotte. Nei paesi, d’inverno, dove e quando nessun ristorante sarebbe rimasto aperto oltre le venti e trenta, l’impresario si adoperava per far sì che la trattoria del luogo non chiudesse fino a tardi, dicendo che avrebbe portato Macario con le ballerine.
Invece, a Roma, Torino, Bologna, Firenze, in genere nelle grandi città, papà, io, la spalla di papà (Carlo Rizzo) e le prime soubrette in cartellone si andava nei ristoranti di primo livello, che avevano un costo insostenibile per orchestrali, ballerini e attori di secondo piano, i quali cercavano trattorie più a buon prezzo.
Ricordo che, una volta, a Mestre, incontrammo Antonio Centa, un attore famoso fra gli anni ’30 e ’50, con qualche puntata nei ’60, il quale aveva aperto lì un ristorante. Ci servì quella che i veneti chiamano la granseola, ovvero la grancevola”.
Come pasteggiava Erminio Macario?
“Io sono ligure, ma i miei genitori erano piemontesi e anch’io ho vissuto a Torino per diversi anni. Sia io che mio papà eravamo buoni degustatori di vino. Lui ne faceva pure un consumo abbastanza consistente, specie d’inverno. Per lui il vino principe era il rosso (anche perché mangiando pasta e carne…). Il ‘vino di papà’ era il dolcetto: il dolcetto di Dogliani, il dolcetto di Alba e un dolcetto meno conosciuto, però buonissimo, forse anche più degli altri, il dolcetto di Neive.
Poi beveva volentieri il Nebbiolo; il Barbera e il Barolo, invece, erano occasionali, ma non scelti. In montagna, in Piemonte, con lessi, bolliti e brasati, il barolo, che è così ‘tenorile’, andava bene, ma in città, a Torino, arrivavano le casse di dolcetto. Papà non ha mai bevuto superalcolici, né whisky né grappa.
Il vino bianco d’estate sì, ma con moderazione, perché anche d’estate prediligeva il rosso. Pizza? Non se ne parla. Mai la birra, eccetto una volta, in una stazione di Parigi, d’estate, perché faceva molto caldo. Era molto piemontese e prudente, mangiava di tutto, ma poco, e, con la sua vita da nomade di lusso, era per forza un assaggiatore di quanto offrivano, negli otto mesi di tournée, le varie regioni visitate”.

Il francobollo dedicato a Erminio Macario
Hai qualche aneddoto particolare da raccontare?
“Sì, quando ero ragazzo, avevamo una villa a Santa Margherita Ligure, sulla collina vicino a dove stava il grande Gilberto Govi. Ecco, papà la vendette all’Amaro Medicinale Giuliani, come se avesse voluto digerire tutti i ristoranti della sua vita! E poi c’erano le ballerine e le soubrette, che erano piuttosto controllate da mia madre, la quale, pur non essendo stata un’artista, viaggiava spesso con papà.
Lei sapeva che le ballerine inglesi, venendo in Italia, scoprivano lasagne, tortellini, spaghetti e vino, quindi c’era il suo occhio di controllo! Perché, a tavola, loro non erano parsimoniose con il cibo come mio padre, ci davano dentro, bevevano anche sambuca e grappa, poi nelle grandi città andavano al nightclub. Se eravamo in un paesino, invece, ci bastava la stufa del foyer del locale teatrino. E poi, lasciamo stare, c’era un altro tipo di fame, golosità e degustazione…”.
Per vedere Erminio Macario al lavoro in una scena gastronomica, eccolo, insieme a Totò, in Totò di notte n. 1 (Mario Amendola, 1962). Siamo al ristorante… Il brodo! Il link QUI:
Invece, a questa pagina del sito dell’Istituto Luce troviamo alcune belle immagini di Erminio Macario (e non solo) a tavola.

Mauro Macario, Enrico Zoi e Andrea Castagna alla Cineteca di Rimini (foto di Simone Felici)