Articolo di Enrico Zoi per la rubrica “A tavola con…” — Michelangelo Antonioni, uno dei maestri del cinema italiano e non solo, autore di film indimenticabili come L’avventura, La notte, Deserto rosso, Zabriskie Point, Blow Up, Professione reporter, tanto per citarne alcuni seguendo solo il filo dei ricordi. Capolavori che hanno accompagnato il secondo dopoguerra in un percorso di arte, di cultura, di grande arte visiva.
Oggi incontriamo Enrica Fico, che del regista ferrarese scomparso nel 2007, è stata moglie, compagna di vita, testimone diretta dei suoi giorni.
Anche a lei, come consuetudine, abbiamo chiesto di rivelarci Michelangelo Antonioni dal punto di vista del gusto per la buona tavola e dei viaggi.
Michelangelo Antonioni raccontato da Enrica Fico
“Non ricordo se ci siano nei suoi film scene legate all’aspetto enogastronomico – esordisce Fico -, perché lui, quando girava, era talmente ‘british’ che non si abbassava a far mangiare gli attori. Non gli piaceva, lo trovava volgare. Però il cibo, nella sua vita, è stato fondamentale. Ci siamo conosciuti al Bar Rosati di Roma, presentati da un comune amico pittore. Io ero giovanissima, avevo 40 anni meno di lui e stavo cercando lavoro.
Mi invitò a cena chiedendomi se volessi andare in un ristorante con tanta gente o con poca gente. Io avevo 18 anni, era sabato sera, risposi: ‘Con tanta gente!’. E mi portò in un ristorante vuoto, deserto, ‘Il Ferrarese’, a Roma, Salita del Grillo. Era prestissimo perché lui, da buon uomo del nord, la sera mangiava presto. L’orario che gli piaceva erano le otto. Quando uscivamo qualche volta poi a cena, anche le nove, ma a casa desiderava le otto.
Così, mi venne a prendere presto e mi portò a questo ‘Ferrarese’ e mi disse che avrei dovuto mangiare il pasticcio, piatto tipico della sua città: una pasta un po’ dolce, ripiena di carne. A lui il pasticcio piaceva. Stranamente direi, poiché non è che amasse molto le cose dolci (a parte la panna montata: poteva anche mangiarne una ‘cofana’!). Il pasticcio ferrarese, dolce e salato, è una pietanza molto orientale, tra l’altro un piatto che non lo rappresenta affatto secondo me, ma è ferrarese!
Così, per me, ci fu subito questa sorpresa di incontrare un uomo ferrarese che, alla fine, mangiava un piatto molto orientale. La cosa mi piacque parecchio: mi mise immediatamente nelle condizioni del viaggio. Poi, in quella prima nostra serata, essendo appena uscito nelle sale Zabriskie Point, mi raccontò tutto di quel film, delle reazioni americane, soprattutto della sua esperienza personale. Mi parlò ovviamente della contestazione giovanile e di tutto il popolo che aveva incontrato a Los Angeles, ma in particolar modo proprio di Los Angeles, e dell’Arizona, degli Indiani d’America, dei libri che stava leggendo, che erano gli stessi che leggevo io e quindi della magia di Carlos Castaneda. E poi della musica… i Pink Floyd, che anch’io sentivo.
Sembrava che, come per incanto, questi quarant’anni che ci separavano non esistessero: avevamo avuto la stessa esperienza. Certo lui molto più importante e grande della mia, e poi io a Milano e lui a Los Angeles, lui come regista e io come studente che partecipava alla contestazione, però l’ideale era lo stesso, a quel tempo. Comunque, a lui piaceva molto la cucina emiliana. Credo che la prediligesse di fronte a qualunque altra al mondo. Poi, certo, io l’ho seguito dovunque in Italia e all’estero, e abbiamo mangiato ogni tipo di cucina, però quella emiliana vinceva su tutti. Le tagliatelle! Il suo piatto preferito erano le tagliatelle al ragù”.
Tornando alla prima cena, con cosa la accompagnaste?
“Intanto, cominciamo con il dire che Michelangelo adorava il lambrusco, quello buono. E siamo sempre in Emilia. Sinceramente non ricordo se abbiamo mangiato qualche altra cosa. Ricordo però che lui non era un gran consumatore di carne, mentre amava moltissimo verdure e insalate, anche lì quelle buone.
Tanto è vero che noi abbiamo sempre avuto un orto. Anche a Roma avevamo un orto: aveva comprato un pezzo di terra proprio alle porte della città, a Prima Porta, dodici ettari di terra dove avrebbe voluto edificare una casa che poi non ha mai potuto costruire. Così, in quei dodici ettari, c’è sempre stato un orto. Con la verdura migliore, i polli ruspanti, le uova, i conigli. Una volta la settimana, arrivava a casa il contadino Antonio con la cassetta piena.
E Michelangelo ha sempre mangiato in modo eccellente, amava molto curarsi, essere in perfetta linea, infatti era un uomo molto magro. Anch’io ero un grissino allora. In generale, devo dire che abbiamo sempre mangiato benissimo. La qualità del cibo, a casa Antonioni, era costantemente magnifica, suprema direi. Tornando a quella sera, dopo le sue tagliatelle, avrà sicuramente preso una verdura cotta. E il lambrusco”.
In tema di condimenti? Cosa amava Michelangelo Antonioni?
“Beh, ci siamo sempre fatti l’olio in casa. Ancora oggi io faccio l’olio del nostro giardino. Io abito un po’ in Umbria e un po’ in Toscana. In Umbria, in quella che era la nostra seconda casa, ci sono centocinquanta ulivi, a Trevi, capitale dell’olio. Che altro? Michelangelo amava molto la ricerca dei cibi e, soprattutto, dei vini. Una volta l’anno andavamo in Veneto per una settimana apposta per acquistare il vino: una settimana dedicata al vino. Andavamo nella strada dei vini bianchi e in quella dei vini rossi con un amico veneto folle e un po’ ‘ubriacone’.
Eravamo, in realtà, con un gruppo di amici ed era l’occasione per stare insieme e raccontare barzellette. Michelangelo era un uomo molto spiritoso, al contrario di come era sul set, dove poteva diventare anche crudele, perché doveva vedere sullo schermo quello che aveva in testa e necessitava a volte di una grande cattiveria. Però, con gli amici, amava ridere e scherzare e aveva un’ironia sottilissima. E adorava raccontare le barzellette. Quindi, durante queste settimane venete erano dedicate all’acquisto del vino e alle barzellette, che lui cercava, studiava, si faceva raccontare per poi esprimerle in quei giorni in cui eravamo tutti un po’ ciucchi!”.
Ha parlato prima dei vostri viaggi e delle varie cucine incontrate: gli piaceva assaggiare i piatti locali o subiva un po’ il fatto di trovarsi all’estero?
“No, non subiva per niente, era molto curioso essendo estremamente intelligente. Così voleva sapere tutto del Paese che visitava e delle persone, quindi anche assaggiare tutto. E poi aveva me vicino, così giovane, che mi cibavo di qualsiasi cosa: avevo sempre fame, la fame dei vent’anni! Ero un grande esempio, perché mangiavo soprattutto per strada, cosa che a me piace tantissimo. E Michelangelo era sorpreso e meravigliato. ‘Ma tu mangi per strada? Non hai paura?’, mi diceva. ‘Assolutamente no!’, gli rispondevo.
Per strada si trovano cose squisite. E gli ho proprio insegnato a farlo anche lui. Il nostro primo viaggio è stato in Cina nel 1972, per il suo documentario, e abbiamo mangiato forse il cibo migliore di tutta la mia vita. Una volta eravamo in una comune agricola, dal mattino prestissimo, perché Michelangelo era un grandissimo lavoratore, con un’energia fisica instancabile. Ancora prima che sorgesse il sole, voleva essere sul set, pronto. Insomma, il programma era girare tutta la mattina in questa comune.
Poi gli piacque tutto così tanto – il paesaggio, le persone che lavoravano, i contadini, gli animali – che chiese di poter girare pure nel pomeriggio. Però dovevamo mangiare, specialmente la troupe: se non dai da mangiare alla troupe, si rivolta! Così dovettero prepararci il pranzo: arrivarono quasi quaranta portate, preparato sempre nella stessa pentola sul fuoco, ma con dei sapori… ogni piatto un sapore diverso!
Perché avevano tutta la verdura possibile e immaginabile, qualunque animale… anatre, galline, polli… un sapore incredibile che non ho mai più ritrovato nella mia vita. E anche lui era assolutamente entusiasta. Abbiamo mangiato sempre benissimo in Cina, ma anche in Giappone e in tutto l’Oriente. Quando andammo in India, dove il cibo non è semplice essendo molto piccante, non l’ho mai sentito chiedere un piatto di spaghetti.
L’unica volta in cui l’ho visto intestardirsi sul cibo italiano era per la mozzarella fresca di bufala, che lui adorava. Una volta, una mattina, eravamo in Sardegna perché doveva girare un film, ‘Tecnicamente dolce’, che poi non ha mai potuto realizzare, ma che farà adesso un altro regista. In quei giorni, la mattina a colazione mangiava i bocconcini di mozzarella fresca con la marmellata di mele cotogne, una cosa squisita, un’abitudine che ha conservato fino alla tarda età. Quando siamo andati a girare ‘Professione Reporter’ nel deserto del Sahara, dove siamo rimasti a lungo, nell’aereo che portava pellicola, carrelli, insomma tutto l’occorrente, faceva mettere un frigorifero con la mozzarella fresca! Quindi, nella tenda nel deserto, arrivava la mozzarella”.
Cosa era il viaggio per Michelangelo Antonioni?
“Il viaggio era per lui una condizione assolutamente necessaria. Intanto, abitava a Roma, ma ricordo una sua frase bellissima: ‘Chi perde la città dove è stato giovane, le perde tutte’, nel senso che, se accade, non puoi più mettere radici da nessuna parte perché le radici rimangono là. Quindi, lui era costretto a vivere a Roma per fare cinema, perché il cinema si faceva a Roma. Abitava cioè in una città che ci ha accolto ed è stata generosissima e ancora lo è con tutti noi, però non è mai stata la sua città. Anzi, era il contrario della sua città.
Roma così volgare in alcuni momenti, in confronto alla elegante Ferrara. Michelangelo ha sempre cercato il suo luogo ideale, quello in cui sarebbe stato forse meglio che a Roma, se avesse potuto. Certamente non sarebbe mai tornato a Ferrara, ma vi abbiamo girato, ad esempio ‘Al di là delle nuvole’. In quella occasione, ho potuto testimoniare la sua sofferenza: non era mai abbastanza giusto e forte quello che girava, perché lì a Ferrara c’erano tutti i suoi affetti, i primi amori, i genitori, la famiglia.
Non si riusciva a chiudere l’episodio ferrarese di quel film. E poi era un uomo talmente curioso, gli piaceva proprio indagare sul luogo e sulla gente. Per esempio, ha vissuto un anno a Londra prima ancora di scrivere la sceneggiatura di ‘Blow up’, ambientato proprio a Londra. Ha voluto conoscere tutti! Carlo Ponti mi raccontava: ‘Eh lo so io i conti del Savoy, il miglior hotel della città, che vi ho pagato in un anno!’ Voleva sapere tutto per raccontarlo poi in un’inquadratura in cui magari c’era assoluto silenzio, ma che conteneva pure la verità di quel luogo che lui aveva assorbito”.
Il risultato poi però si è visto! Infine, un viaggio ‘vostro’ che ricorda con particolare affetto?
“Forse non abbiamo mai fatto un viaggio solo per andare in vacanza. Viaggiavamo sempre per lavoro, tipo per i sopralluoghi. Aveva sempre in testa dei film, anche più di uno. I veri viaggi di piacere erano quelli nelle nostre seconde case, quindi tutti i viaggi che abbiamo fatto in Sardegna. Ha sempre detto che quella casa in Sardegna, a Costa Paradiso, era il posto dove era stato in assoluto più felice nell’intera sua vita.
Adesso è diventata una casa molto famosa perché è un esempio fantastico di architettura moderna: è una cupola, una casa tutta tonda, con discesa al mare. Sembra un’astronave. È il primo posto in cui mi ha portato. È lì che mi ha convinto a stare con lui: pareva già di essere su un altro pianeta.
Un luogo molto antonioniano, di grandissima fantasia. Stare in un posto senza angoli, vivere con il soffitto che ti scorre sferico sulla testa, dormire in questo spazio vuoto tondo, era una cosa meravigliosa.