Questo breve romanzo di Cesare Pavese, che volendo si gusta tutto in una notte, scritto nel 1947, e che alcuni giudicano non uno dei suoi migliori libri, si presenta come un esempio di poesia della cronaca, con il suo crescendo lirico e a tratti scapigliato di un percorso di coscienza politica in progress. Al suo interno, sono frammenti di vite vissute e squarci quotidiani tra il disperato e lo scanzonato quelli che si manifestano – imperfette epifanie – agli occhi del lettore, come puntini di sospensione non puntiformi – mi si passi il gioco di parole -, ma densi di senso ed emozione, pur all’interno di una certa disgregazione stilistica non sempre facile da accettare. Il bello, però, è che, dopo l’ultima pagina, letta la frase finale, superato il confine conclusivo, il foglio ormai bianco appare più una scommessa che una resa.
Ed è forse questo il significato più profondo di questo testo di oltre settant’anni fa: il tramandare l’indefinita, eppur consapevole, incertezza di un cammino politico ed umano in tempi di dittatura.
In tutto ciò, a differenza di altri libri di Pavese, l’enogastronomia ha un ruolo quasi asettico, asciugato dell’essenza stessa del gusto: pur iniziando l’avventura di Pablo con “una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre”, agli odori e ai sapori non si accenna quasi mai.
Certo, se il lettore si imbattesse per caso nel pasto serale romano che si trova verso la fine del libro, potrebbe forse pensarla diversamente: “Dove cenammo era famoso per porchetta e mozzarella. Carletto [un amico attore] rifece per noi qualche scena sintetica; era ancora più in gamba di un tempo, ma ci serviva un cameriere in giacca bianca, e la cosa cambiava. Chi rideva da folle mordendosi il pugno, era Gina; io capivo che, povera donna, aveva ancora il batticuore per noi due, e per questo rideva così da ubriaca. Non una volta in quei due giorni che si fosse lamentata. Passò così tutta la sera, e ritornammo al Milvio in gruppo”. È questa forse la sola volta in cui Pavese, nel ‘Compagno’, descrive un pasto quasi ‘come Dio comanda’, parlando della specialità della casa e tratteggiando il corollario umano della cena.
Al contrario, la frase che meglio di ogni altra sembra dare il senso del distacco con cui viene affrontata la componente enogastronomica, la troviamo nella scena di un apparente riaccendersi romano di una fiammella fra i due amanti torinesi, Pablo e Linda: “’Linda, perché sei ritornata?’ ‘ Ci stai male?’ ‘Ci sto male per te’ Allora lei saltò dal letto, e mi abbracciò. Non voleva che me ne andassi pensandola male. Non voleva che andassi a bere del vino. Non capiva perché non capivo le cose”.
Non voleva che andassi a bere del vino… già perché, nel ‘Compagno’, il vino è quasi sempre anonimo, un ingrediente privo di personalità, buono per annebbiare timori e dolori esistenziali e caratteriali o quale surrogato di una compagnia umana. Mai una volta che lo si assaggi, lo si sorseggi, lo si gusti. In qualche caso, si parla addirittura semplicemente di ‘un bicchiere’ o di ‘un litro’, senza mai specificarne il contenuto.
Con la sola eccezione, che conferma la regola, della menzione del barolo in un contesto – l’unico – in cui l’ottimo vino piemontese agisce quasi come un personaggio: “Lubrani [il terzo incomodo fra Pablo e Linda] volle una bottiglia di Barolo (…). Linda disse: ‘Chiamiamo perché accendano il fuoco’. Mentre il ragazzo si voltava a guardarci, noi bevemmo e Lubrani mi disse: ‘Tu sei giovane, Pablo, e non sai che tre nasi son quel che ci vuole per bere il barolo’. ‘Non lo so’ dissi asciutto. ‘Ma com’è buono’ disse Linda”.
In ogni caso, pur nel suo pressoché costante anonimato, il vino torna almeno una trentina di volte nel testo. Un po’ come la colonna sonora di un film: se alla fine della proiezione non te la ricordi, dovrebbe significare che ha fatto pienamente il suo dovere.
Per il resto, all’enogastronomia restano piccole allusioni, quasi briciole: cognac, caffè, grappa, liquore, tè, latte, salame, caffè e latte, castagne arrostite, uova, mandarini, cappuccino, brodo, insalata, frittelle, finocchio, pollo, frutta, birra, carne, ciliegie…
Il compagno Pablo, pur mangiando e, soprattutto, bevendo in non modicissima quantità, ha evidentemente altri pensieri, altre ansie, altre tensioni. In fondo, la sua è l’Italia del ventennio, coeva alla guerra civile spagnola. Quello che si sta apparecchiando per il nostro Paese e per il mondo intero non è certo una degustazione o un banchetto.
“Il compagno”, di Cesare Pavese. Il libro è servito!