Per la rubrica “Il libro è servito” oggi vi presento “Attraversare i muri”, autobiografia di Marina Abramovic. La celeberrima performance/conceptual artist di origine serba, transitata recentemente anche da Firenze con una sua mostra a Palazzo Strozzi. Un un libro irritante e sconvolgente, illuminante e mediocre, coinvolgente e ironico, serio e faceto, disturbante e romantico, vero e finto, autobiografico e futurista, diaristico e intimistico, violento e fuorviante, antipatico e riflessivo, superficiale e profondo, condivisibile e incondivisibile. Ai confini della realtà.
Una twilight zone
E in questa twilight zone creativa ed esistenziale ci sta davvero di tutto, di più, ma anche qualcosa di meno. Un patchwork contraddittorio (e, lancio un dubbio, forse più d’effetto che di sostanza?) dove pure cibi e bevande assumono connotati che si negano e si allacciano a vicenda, come fossero delle sliding doors, però mal funzionanti.
Mi spiego senza scendere nei particolari della vita e dell’opera della Abramovic, una grande provocatrice che, nelle sue performances, fa, del proprio corpo, un uso decisamente anticonvenzionale, spingendosi oltre il dolore e il piacere. O almeno ci prova. I particolari e gli episodi li trovate nel libro, che – la si ami o no – è comunque bene leggere.
Né farò, come nelle precedenti puntate della mia rubrica, l’elenco ragionato con citazioni dei cibi e delle bevande che ricorrono nel testo. Trattandosi di un’autobiografia, poco importa se il caffè figura diciotto volte: la Abramovic ne avrà presi sicuramente molti di più. E poi queste menzioni non sono elementi letterari inseriti in un libro da uno scrittore con uno scopo narrativo ben preciso, ma mere tessere di vita vissuta.
Alcuni significativi esempi
Mi limiterò a portare alcuni esempi, penso e spero significativi.Iniziamo quasi dal fondo, ovvero dal 2010. Nei diciassette punti del suo ‘Manifesto della vita di un artista’, Marina Abramovic esclude ogni accenno a pietanze e a bevande. Altro, evidentemente, è per lei il nutrimento di chi crea. A conferma di tutto ciò, nella coeva performance ‘The Artist is Present’, al Moma (Museum of Modern Art) di New York, l’artista, pur essendo seduta per l’intera giornata a disposizione del pubblico che singolarmente può sedersi davanti a lei e guardarla, dichiara espressamente di non pensare mai al cibo. Non un momento nell’arco delle ore trascorse on stage, per tre mesi!
Eppure, la scintilla, negli anni Settanta, le scocca proprio da qualcosa di commestibile. Siamo a Belgrado e la mostra cui partecipa la giovane Marina si chiama “’Drangularium’, ossia ‘collezione di cianfrusaglie’. Il mio contributo – racconta – si ricollegava ai dipinti con le nuvole che avevo fatto in quel periodo. Presi un’arachide con il suo guscio e la fissai al muro con un sottile chiodino. Sporgeva dalla parete quel tanto che bastava a gettare una piccola ombra. Intitolai il tutto ‘Nuvola con la sua ombra’. Osservandola, mi resi conto che per me l’arte a due dimensioni apparteneva davvero al passato. Quell’opera apriva una dimensione completamente nuova. E quella mostra aprì nuovi mondi a molte persone”.
Nuovi mondi. Da un’arachide. L’immaginazione al potere. Ma anche: il cibo escluso dal manifesto alla base del movimento interiore che genererà proprio quel manifesto.
Se vogliamo poi riallacciarci alla cena – negativa, distruttiva, drammatica – di ‘Chesil Beach’, di cui parlammo una delle volte scorse, citerei la descrizione di un’altra cena, quella in cui, nel 1975, la Abramovic suggella il suo incontro con Ulay, l’uomo che le cambierà la vita.
“Mi disse che viveva ad Amsterdam dalla fine degli anni sessanta e che faceva fotografie, di solito Polaroide spesso di se stesso. Per gli autoritratti enfatizzava il lato femminile del suo volto con una mezza parrucca dai capelli lunghi e un trucco pesante che comprendeva sopracciglia finte e rossetto carminio. Il lato maschile lo lasciava com’era. Mi ricordò subito Thomas [Thomas Lips, un suo amore precedente]. Ma presto scoprii che questa connessione non era l’unica. Dopo avere eseguito ‘Thomas Lips’ [una sua performance] alla de Appel, Ulay mi curò le ferite con molta tenerezza, mettendo prima il disinfettante e poi le bende, mentre ci scambiavamo sorrisi. Poi andammo a cena in un ristorante turco con Wies, qualcun altro della galleria e la troupe televisiva. Dissi a tutti quanto fosse stato carino che l’invito di Wies fosse arrivato per il mio compleanno; in pratica era la prima volta che quel giorno mi succedesse qualcosa di positivo. ‘Quand’è il tuo compleanno?’ chiese Ulay. ‘Il 30 novembre,’ risposi. ‘Impossibile,’, fece lui. ‘Quello è il mio compleanno.’ ‘Ma dai.’ Allora prese la sua agendina e mi fece vedere che la pagina del 30 novembre era strappata. ‘Lo faccio ogni anno il giorno del mio compleanno,’ disse Ulay. Rimasi a fissare l’agendina. Dato che detestavo il mio compleanno, anch’io strappavo sempre la pagina corrispondente. Così presi la mia agendina e la aprii per mostrare la pagina mancante. ‘Anch’io,’ dissi. Anche Ulay rimase a fissarmi. Quella sera tornammo a casa sua, e restammo a letto per i dieci giorni successivi. La nostra intensa alchimia sessuale fu solo l’inizio”.
Una cena: l’implosione felice di mille orgasmi
Il pasto serale è il buco nero a (provvisorio) lieto fine dell’amore, l’implosione felice di mille orgasmi, un nutrimento che si lascia intendere e circuire al di là delle pietanze servite e gustate, collocate volutamente nell’oscurità, quasi una piccola performance descrittiva in cui il lettore può inserire il ricordo di una sua analoga serata. Tutti, magari scavando un po’ nel nostro io, possiamo scoprire di avere vissuto una cena più o meno come questa e di avere mangiato qualcosa… sempre che ce lo ricordiamo…
Spesso, dunque, stando al suo racconto, la Abramovic individua nei momenti e nei luoghi della gastronomia situazioni importanti, ma astratte da ciò che viene mangiato e bevuto. Saltiamo al 2009…
“Quell’autunno andai con Marco Anelli a Gijón, in Spagna, per un nuovo lavoro: una serie di video e di foto dal titolo ‘The Kitchen’. L’ambientazione era una vera cucina, uno spazio straordinario in un ex convento di monache certosine che aveva sfamato migliaia di orfani. Anche se il lavoro nasceva come omaggio a santa Teresa d’Ávila – che scrisse di avere avuto un’esperienza di levitazione mistica nella cucina del suo convento -, assunse un carattere autobiografico, diventando una meditazione sulla mia infanzia, quando la cucina di mia nonna era il centro del mondo: il posto in cui venivano raccontate tutte le storie, venivano impartiti tutti i consigli sulla mia vita e si leggeva il futuro nelle tazze di caffè”.
Dopo la situazione della cena, è ora il luogo della cucina a smuovere le acque, a illuminare e sostanziare i ricordi, a far riemergere il vissuto, sia quello consapevole che l’altro, più sottile, quello inconscio. Un nuovo buco nero, un flash di tempi andati, una serena voragine a cielo aperto. Tutto in una cucina. ‘The Kitchen’, appunto. Il cibo assente nel manifesto non conta, forse, ma le situazioni e i luoghi dove esso alberga e tradizionalmente si trova paiono basilari nell’evoluzione della poetica della Abramovic.
Poi, per tornare a volare apparentemente più basso, come nel gran finale di uno spettacolo pirotecnico, possiamo divertirci a elencare i fuochi d’artificio culinari più occasionali e diversi in cui ci siamo imbattuti leggendo il libro e gustare (o non gustare, a seconda) con l’artista, caffè turco, fagioli, cioccolato, vodka, cognac albanese, pane, miele, vino, maialino allo spiedo, pecorino, salsicce, formaggio, pomodoro, carne di cane su foglie di palma, pasta, salsicce ungheresi, alimentazione australiana, fagioli secchi, una colazione galleggiante, succhi di frutta, yogurt, latte, tè tibetano, pesce, una torta a forma di grande muraglia, sangue di maiale bollente, hamburger, l’immancabile Coca Cola, banane, cucina thailandese (solo pollo), bread sauce, cipolla cruda (mangiata a morsi in una performance), infusi, panini, una Marina Abramovic di marzapane, a seguire porchetta, rakia, tè al burro di yak, dolci, una torta al limone, ancora dolci (stavolta al cioccolato), fragole, pesciolini, un cocktail con la lacrima dell’artista, ghi sciolto da bere, ostriche e champagne, gelato, riso e lenticchie! The End.
“Attraversare i muri”, di Marina Abramovic. Il libro è servito!