Enrico Zoi per la Rubrica “a TAVOLA CON…” – A venticinque anni dalla scomparsa, avvenuta nel 1999, oggi 15 dicembre 2024, giorno del suo compleanno, ricordiamo il regista dai 200 film, Joe D’Amato, nome d’arte di Aristide Massaccesi, autentico navigatore dei generi – dallo spaghetti-western all’horror, dal porno al thriller, dall’avventura alla commedia -, generi che non si limitò ad attraversare, ma che contribuì a contaminare fra loro con risultati spesso interessanti, e grande sperimentatore di soluzioni tecniche a volte decisamente ardite ed originali.
Alcuni suoi film
Qualche titolo? Tra gli horror ricordiamo alcuni autentici cult, quali Buio Omega (1979), Antropophagus (1980) (nel quale ha una piccola ma iconica parte anche la scrittrice Margaret Mazzantini), Le notti erotiche dei morti viventi (1980), Rosso Sangue (1981). Prima di allora, dirige quasi tutti i film della serie di Emanuelle nera (con una emme sola), interpretati da Laura Gemser. Del 1982 è l’avventuroso Ator l’invincibile, mentre, con Sesso nero, girato nel 1978 ma uscito in sala solo nel 1980, realizza quello che viene considerato il primo film pornografico italiano.
Lasciamo però che Joe D’Amato passi il testimone ad Aristide Massaccesi e, grazie al figlio Daniele Massaccesi , direttore della fotografia, il quale ha lavorato con registi quali Antony Minghella, Antoine Fuqua, Martin Scorsese, Woody Allen, Steven Spielberg, Ridley Scott, Lana and Lilli Wachowski, ci racconti i suoi gusti in tema enogastronomico.
“Sicuramente a papà piaceva mangiare – esordisce Daniele – e mangiava di tutto. Non aveva problemi, anzi assaggiava volentieri cose nuove. Avendo viaggiato spesso in giro per il mondo, aveva provato cucine e posti diversi. Amava la tavola e, pur non essendo un grande bevitore, apprezzava il buon vino e la convivialità. Le ricorrenze, tipo Natale o Pasqua, erano pretesti in più per organizzare pranzi e cene particolari con la famiglia. Non gli piaceva molto andare al ristorante, tranne che in occasioni specifiche alle quali veniva invitato, come gli incontri di lavoro”.
Un piatto che proprio gli piaceva?
“La pasta. Con qualunque forma di condimento. Poi la carne: la bistecca alla fiorentina! Gli piaceva anche cucinare e le festività gli davano modo di farlo. Ricordo che prendeva alcune ricette tradizionali e le rivisitava. Una di questa era l’amatriciana. Lo faceva spesso anche quando era in giro per il mondo: preferiva avere un appartamento con una cucina per prepararsi da mangiare da solo, invece che andare sempre al ristorante. Ovviamente, all’estero era più difficile reperire gli ingredienti, ma in qualche maniera papà riusciva sempre a trovare un distributore di prodotti italiani da cui comprare la pasta o il parmigiano. Sì, il cibo era un elemento importante nella sua vita, a prescindere dal lavoro. Purtroppo mangiava di tutto e tutto, mentre per la salute doveva limitarsi”.
D’Amato aveva un ristorante preferito?
“Non ne aveva, però era legato da amicizia con l’attore Luigi Montefiori, noto come George Eastman, il quale aveva aperto un ristorante a Piazza Navona. Si chiamava Il Cantuccio e per i pranzi di lavoro di solito andavano lì. Se no, per la carne, ai ristoranti Garibaldi, che è appena fuori Roma, o La Fiorentina per la bistecca alla fiorentina”.
Quindi era un misto di tradizione e di voglia di sperimentare?
“Sì, sicuramente era molto legato alla cucina italiana, ma non disdegnava piatti della gastronomia per esempio africana. Era stato in Eritrea e in Etiopia e lì aveva mangiato pietanze locali e secondo le loro usanze, cioè con le mani in un unico piatto. Era stato anche in Vietnam per realizzare alcuni documentari e, quando tornò, insegnò anche a noi a mangiare con le bacchette. Era una mente molto ampia ed aperta. Non era fossilizzato esclusivamente sulla nostra tradizione. La sua mentalità aperta gli permetteva di provare qualunque tipo di cucina, anche la più strana, tipo le cavallette o simili”.
Personalmente ricordo che, in uno dei suoi film della serie di Emanuelle nera, girato a Hong Kong, ad un certo punto Laura Gemser, camminando per le vie della città, si imbatte in un esponente dello street food locale di allora (stiamo parlando grosso modo della seconda metà degli anni ’70). Si capisce chiaramente che tuo padre si fermò a filmare la scena vera di un cuoco di strada che, in pochi secondi, uccide un serpente, lo spella, lo taglia a pezzetti come fosse un anguilla e lo arrostisce. Tu pensi che l’abbia assaggiato?
“Sicuramente! Conoscendolo, non ho dubbi. All’epoca quel tipo di mondo rappresentava l’avventura, la conoscenza di un folclore diverso, anche una sperimentazione”.
Scene di cibo nei suoi film? A me viene in mente Antropophagus…
“Che poi l’intestino era trippa! Eastman che mangiava il proprio intestino era una provocazione, come il serpente di Emanuelle nera. Anche se le anguille non è che siano tanto differenti! Altre scene gastronomiche non saprei. Il nostro rapporto professionale era più legato a questioni tecniche della macchina da presa”.
Ecco, il vostro rapporto: cosa ti ha lasciato tuo padre?
“Di certo la passione per il cinema e per questo lavoro, un approccio molto più aperto alla realtà. La sua caratteristica principale era l’apertura mentale e mi ha insegnato a non fossilizzarmi sugli stessi meccanismi lavorativi e ad essere pronto a nuove possibilità e sperimentazioni. Per tante cose papà è stato un precursore e questo è forse il regalo più grande che mi abbia fatto dal punto di vista del suo lavoro. Come pure la grande passione. Peccato che adesso non possiamo condividere più nulla. Mi sarebbe piaciuto raccontargli le mie esperienze professionali in un cinema diverso dal suo. Spero comunque che da qualche parte lo possa vedere e riesca a sapere cosa sta accadendo nella mia vita. Purtroppo se n’è andato proprio nel momento in cui io cominciavo a crescere e quello è un grande rammarico. Si è creato un vuoto che non si riempie più”.
Chi era Aristide Massaccesi al di là del lavoro?
“Era una persona molto autonoma. Anche a casa si impegnava sempre a fare cose per conto suo. Non era un hobbista, ma un amante del ‘fai da te’ sì. Si cimentava nel costruire, fare, trasformare. Non riusciva a stare fermo senza fare niente: se non era il lavoro era il giardino della casa in campagna o la costruzione di mobili. In questo io sono un po’ simile a lui: sul divano sto a guardare un film, non ad oziare. Non riusciva a lui e non riesce a me”.