Per la nostra rubrica “Il libro è servito” curata da Enrico Zoi oggi vi intratteniamo con la lettura de “I morti viventi”, di George A. Romero e Daniel Kraus.
L’inventore degli zombies
Non un accenno alla trama del romanzo I morti viventi (The Living Dead), frutto della sapiente e appassionata complicità di Daniel Kraus – coautore della Forma dell’Acqua e fan di George A. Romero – proprio con Romero, nel senso che Kraus ha completato ciò che il regista della Notte dei morti viventi e ‘inventore’ degli zombies non ha potuto finire. Non c’è bisogno, infatti, di spoilerare per capire di cosa si ragioni: basta il titolo.
Da sottolineare, invece, con soddisfazione l’andamento maestoso e l’architettura illuminata di questo librone ‘scritto’ dai due in epoche diverse, ma nutrito dalle loro incredibili affinità elettive, un testo narrativo, politico e filosofico, il cui furore ipnotico ed epocale si fonda su Stephen King, su John Steinbeck, su E.T.A. Hoffmann e su J.R.R. Tolkien. Da leggere senza pensare di avere a che fare semplicemente con gli zombies.
E da leggere anche senza credere che la componente gastronomica del racconto sia limitata alle specifiche predilezioni dei suoi protagonisti – o, per la precisione, coprotagonisti -, sulle quali sorvoliamo, essendo universalmente noti.
Romero e Kraus disseminano nel testo cibi e bevande, pasti e non pasti, bevute e non bevute
E questo perché Romero e Kraus disseminano nel testo cibi e bevande, pasti e non pasti, bevute e non bevute, senza concentrarsi sull’aspetto tradizionale del gusto, o facendolo solo raramente. Si accostano piuttosto alla materia alimentare (et similia) sia in quanto componente dell’esistenza in qualunque circostanza (tanto più nelle distopie), sia nella sua veste quotidiana di accessorio, ricordo, similitudine, inconsapevole richiamo, come quando, tanto per dire, vediamo un quadro in una pinacoteca e, all’istante, ci sovviene un pranzo in un ristorante semplicemente perché, sulla parete accanto al nostro tavolo, ci siamo ritrovati una natura morta analoga all’opera esposta nel museo. Un esempio banale, giusto per rendere l’idea di quanto imprevedibili siano a volte le nostre associazioni mentali.
Sostanziamo però queste brevi riflessioni con alcune citazioni, le più meritevoli delle molte che avremmo potuto menzionare, tessere nobili e meno nobili di un libro che è innanzi tutto un grande puzzle e un immenso viaggio nel futuro e nell’ignoto.
In primis, l’epigrafe. Letteraria sì, ma di una letteratura che usa le sue parole per disseminare zizzania nel cuore della nutrizione – umana e non umana -, dal racconto Le Horla – fantastico essere invisibile -, di Guy de Maupassant:
“L’avvoltoio ha mangiato la colomba; il lupo ha mangiato la pecora; il leone ha divorato il bufalo dalle corna aguzze; l’uomo ha ucciso il leone con la freccia, con la spada, col fucile. Ora Le Horla farà con l’uomo quello che noi abbiamo fatto col cavallo e col bue: una cosa sua. Il suo servo e il suo cibo, col solo potere della sua volontà. Sventura a noi!”.
I tanti caffè
Al di là, poi, dei diversi caffè disseminati nel testo, che ormai abbiamo imparato essere una quasi costante delle varie narrative, ci imbattiamo, di associazione mentale in associazione mentale e di episodio in episodio, in sandwich poco appetitosi, profumi di grigliate, biscotti, tacchini, torte, fagioli, cioccolate calde, tequile, whisky, hamburger con patatine, arachidi, pizze, sciroppi d’acero, bourbon e tanto altro, insomma in un armamentario culinario piuttosto comune a ogni latitudine del cosiddetto mondo occidentale, benché forse più radicato tra Stati Uniti e Canada, dove il romanzo è ambientato. Queste considerazioni valgano per l’impianto generale, le fondamenta, la scenografia di fondo.
Spiccano però alcuni riferimenti più particolari…
Ad esempio… “Mae Rutkovski, cinquantaquattro anni, si era sistemata sul divano con un bicchiere verde di Crème de Menthe, l’unico alcolico che teneva in casa” e, aggiungiamo noi, ingrediente di alcuni drink e cocktail ispirati proprio ai morti viventi, come lo Zombie Brain Shot o l’Acapulco Zombie!
Oppure: “Il corpo di Hector [nome fittizio per non rivelare il personaggio] era avvolto in un bel plaid. Linda [idem] aveva fatto un lavoro preciso, fissando gli orli con delle cinture prese dai cassetti del comò. Non poté fare a meno di sorridere. Sembrava un burrito. Hector, lagnoso numero uno al mondo, adorava criticare quella mostruosità iper-calorica che erano i burritos americani, appena ne sentiva l’odore”. Una sorta di contrappasso alimentare, tra dolcezza dell’amante e terrore della morte.
Per non togliere il gusto di cimentarsi in una lettura, dati anche i riferimenti letterari che abbiamo menzionato in apertura, che vi preannunciamo densa di interesse, citeremo ancora solo due capitoli, quello, efficacissimo e trascinante, dedicato alla fame – rubandogli un piccolissimo estratto: “La fame è dappertutto. Fame il pugno. Le ossa. La carne. Fame il cervello” – e l’altro incentrato sul vegetarianismo. E qui ci fermiamo.
Bastino – auspichiamo – questi pochi flash per invitarvi a una lettura che, pur partendo da un distopico orrore, non potrà non condurvi nei porti sicuri della letteratura.
“I morti viventi”, di George A. Romero e Daniel Kraus. Il libro è servito.