Caro diario… sì, caro diario è l’incipit giusto per questo racconto letterario e cinematografico dei miei giorni domestici di Coronavirus. (Di Enrico Zoi)

Perché è il titolo di un grande film del 1993 di un regista che amo, Nanni Moretti. E perché un diario è sempre e comunque un libro. A volte molto bello, a volte anche, sì, un capolavoro.

Come, ad esempio, La nausea (1932-38) di Jean-Paul Sartre, romanzo in forma di diario che ho riletto la scorsa settimana. Emblematico fin dalle parole di esordio: “La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli. Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato. Occorre determinare esattamente l’estensione e la natura di questo cambiamento”. Antoine Roquetin, alias del filosofo e scrittore parigino, mi ha portato a Bouville, meno di mille abitanti nella Senna Marittima, quasi un luogo-non luogo. Con questo libro, oltre che nell’àmbito della Normandia, sono entrato anche in quello della grande letteratura. Ripercorre questo itinerario analitico della realtà, raccontato come fosse una perfida e insidiosa avventura, mi ha condotto alle soglie di porte della percezione (e mi sovvengono i viaggi rock dei Doors) che non ricordavo.

Il gustoso disgusto che genera la nausea nel fittizio estensore di questo diario introduce il lettore nel cuore di una minuziosa recherche di attimi, parole, gesti, esseri viventi, architetture, odori, suoni e momenti perfetti, che sfocia in una scrittura a tratti persino cinematografica. Come quando François Truffaut narrava da par suo in molti suoi film le mille e più sfumature dell’amore. La nausea: chi ancora non l’ha letto lo legga. Non è certo un ordine, ma un consiglio da amico. Un invito per guardare al di là dell’attuale distopia.

Da Bouville sono poi tornato in Toscana, precisamente a Cortona, con un viaggio insieme fisico (la patria di Spartaco Lavagnini e Zerocalcare mi è decisamente familiare) e quasi metafisico, per il tramite delle pagine del libro di un altro cortonese doc, Tito Barbini, intitolato Le rughe di Cortona, grazie al quale sono rimbalzato pure nell’Africa settentrionale, tra l’altro per rimanerci, ma procediamo per gradi.

L’amico Tito…”il viaggio presume il ritorno”

Le rughe di Cortona viene pubblicato nel settembre del 2013. Negli ultimi anni ho letto diversi libri dell’amico Tito, ma questo, piccolino come dimensioni, era rimasto sepolto sotto la pila di volumi e volumetti che tradizionalmente affolla (e impolvera!) il mio comodino. Quando l’ho ritrovato (spolverando!) quasi per caso, mi sono detto: non può attendere ancora. E, a lettura conclusa, capisco che si è trattato non so se di un segno del destino, ma certo di una sua segnalazione: era questo il momento della mia vita in cui immergersi nelle sue pagine emozionanti.

Le rughe di Cortona

Anche perché la narrazione ispirata che lo contraddistingue mi ha subito posto di fronte a un bivio, a una di quelle sfide che mi piacciono. Un bivio che non è stradale: non c’è da scegliere se andare o no a Cortona. Cortona, se qualcuno ancora non c’è stato, va visitata: troppo bella. Il bivio riguarda il tema, anzi il concetto stesso del viaggio. Secondo Tito “il viaggio presuppone un ritorno (…), è riportare indietro ciò con cui ci siamo arricchiti nell’itinerario: emozioni, incontri, scoperte, silenzi e parole”. E mi ci riconosco, è vero, ha ragione, faccio anch’io così. E allora qual è il problema? Dove sta il bivio?

Leggo queste parole, le faccio mie, mi ci siedo come in una comoda poltrona, e subito, tanto per non adagiarsi mai, mi viene in mente un dialogo che mi porto dentro da trent’anni, da quando cioè ammirai, all’Excelsior (uno dei cinema di Firenze che non esiste più), quel meraviglioso film di Bernardo Bertolucci che risponde al titolo de Il tè nel deserto. Era il 1990.

Riporto qui quel magico scambio di battute ambientato nel Marocco del secondo dopoguerra: “Tunner: ‘Forse noi siamo i primi turisti che hanno dopo la guerra!’ Kit: ‘Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori’ Tunner: ‘E che differenza c’è?’ Port: ‘Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva, Tunner…’ Kit: ‘….laddove un viaggiatore può anche non tornare affatto’.”

Due visioni antitetiche del viaggio?

Contraddizione? Due visioni antitetiche del viaggio? Compresenza delle due dimensioni e magari anche di altre che mi sfuggono? Non ho risposte, ma una bellissima sensazione di dubbio con la quale è stimolante convivere. Una sensazione della quale ringrazio di cuore, sì, Bertolucci e lo scrittore statunitense Paul Bowles, autore dell’omonimo romanzo da cui il film è tratto, ma soprattutto il bellissimo Le rughe di Cortona, il diario sentimentale ed emozionale di Tito che me l’ha scatenata.

Africa settentrionale, dicevo. Infatti, adesso, dopo il Marocco, mi trovo immerso nella Algeri de Lo Straniero (1942), di Albert Camus e del suo avatar, l’impiegato Meursault…

Viaggio nel cinema…

Venendo al cinema, anche qui, in questi giorni, ho viaggiato abbastanza.

Intanto, ho completato la filmografia del regista danese Nicolas Winding Refn, con la strabiliante serie televisiva Too old to die young (2019), che mi ha accompagnato in un infernale limbo tra Los Angeles e il Messico. Refn è un autore sicuramente molto interessante e dalla visione complessa ed eterogenea. Non ho amato i suoi film forse più famosi, quali Bronson (2008) (deja vu superficiale di Arancia meccanica), né i pretenziosi/presuntuosi Valhalla rising (2009) e The Neon Demon (2016). Ho invece apprezzato molto l’arsura metafisica della violenza dei tre Pusher (1996-2005), davvero ottimi esempi di cinema. Ho amato il criticatissimo Solo Dio perdona (2013), che rivedrei e rivedrò.

Mi sono infine, appunto, calato con soddisfazione nella follia di Too old to die young, una serie in cui tutte le solitudini e tutti i mali del mondo vengono per nuocere. Dieci puntate per raccontare una storia che sarebbe entrata in un film di due ore, distanze e tempi meravigliosamente dilatati a comprendere i monsters che vivono negli interstizi dell’esistenza, tra umano, non umano e divino. Dieci segmenti in cui la narrazione brilla e convince per il suo non essere naturalistica (assolutamente!), né, nonostante le apparenze, realistica. Restano negli occhi immagini e sensazioni di un regista che, tra echi di Lynch, Tarantino, Sorrentino e di chissà quanti altri mi sono perso, lascia la voglia di aspettare la sua prossima serie, Les Italiens. Sperando che non caschi nella trappola del Midcult. Per adesso sembra esserci riuscito. Ed è per questo che mi piace ancora e sono curioso delle sue prossime mosse.

Dopo un breve intermezzo nel cinema del passato, con Un re a New York (1957), film forse un po’ dimenticato di un Charlie Chaplin ormai maturo, esemplare affresco sul maccartismo e sulle storture della democrazia statunitense, grazie al quale, per inciso, ho potuto rivedere un’attrice inglese della quale pure direi che si sia persa la memoria, la bella e brava Dawn Addams (1930-1985), ho iniziato un’altra filmografia, quella del regista canadese Denis Villeneuve, l’autore di Blade Runner 2049 (2017), per intendersi.

Al momento, mi sono felicemente dedicato ai suoi primi tre film, che ho trovato molto belli e che consiglio calorosamente: Un 32 août sur terre (1998), Maelström (2000) e il drammatico Polytechnique (2009), sul massacro di Montreal del 1989. Un bianco e nero, quest’ultimo, lucido e impietoso che ha gli occhi e il volto di Karine Vanasse, la protagonista, canadese come il regista.

Caro diario, questi alcuni dei miei libri e film nei giorni del Coronavirus: viaggi, visioni del mondo utili a riflettere, e, nel migliore dei casi, interpretare. E magari provare a comprendere…

Post Scriptum. Due consigli di mio figlio Filippo. Per le letture, propone La Gioconda, il mistero dell’identità svelato da una storia d’amore (2017), di Massimo Casprini, e, per il cinema, suggerisce il mitico cartone animato Un burattino di nome Pinocchio (1971), del fiorentino Giuliano Cenci. Conosco entrambi: meritano!