Del peperoncino, del limone, del gusto da inventare.
Pensieri a briglia sciolta (con morale) a proposito del buon cibo.
Di Enrico Zoi
Ho scoperto che il peperoncino è una linea di confine.
L’ho scoperto a poco a poco. Nel corso del tempo. Come una felice incertezza che scava il proprio percorso tra le sopracciglia del mio sguardo insieme di buongustaio e di amante delle emozioni tendenzialmente forti.
Tutto inizia non meno di una ventina di anni fa: una piccola intrusione nelle pietanze abituali, le dimensioni e la forza del rosso siluro e la quantità dei suoi semi che crescono di giorno in giorno, i sapori che si esaltano e le malattie respiratorie, tanto presenti in gioventù, che svaniscono, come farebbe la polvere di peperoncino se un incauto consumatore l’abbandonasse alla rosa dei venti.
Un prima e un dopo, dunque.
Un prima e un dopo che diviene un gioco, uno scherzo, e quindi una cosa terribilmente seria.
Le strade della vita e del lavoro mi conducono spesso in una piccola grande trattoria di Grassina (siamo a Bagno a Ripoli, nei pressi di Firenze, alle porte del Chianti). Osteria del Rosso, così si chiama.
È un forno, ma anche un’ottima gastronomia, un’enoteca e insieme un luogo di musica vissuta, ascoltata, ragionata, di conversazione e di amicizia.
Lo smartphone sul tavolo contro ogni regola di galateo. Due foto al primo piatto di turno, la seconda scattata quando le farfalle, le pennette, i testaroli, i rigatoni, la ribollita, come in un quadro in futuristico movimento, hanno ricevuto la pioggia, la grandinata, la nevicata di peperoncino tritato.
Un post su Facebook e il gioco ha inizio: la doppia immagine del primo piatto prima e dopo il peperoncino diviene una sorta di cult fra i miei amici, che me lo chiedono, lo attendono, lo commentano. Chi pro, chi contro.
Per me, che amo l’emozione del piccante e il suo saper valorizzare ogni sapore e che ho beccato il primo mal di gola da almeno quindici anni a questa parte dopo aver trascorso una settimana ad Amburgo in cui il solo peperoncino incontrato è stato quello, finto, del Museo Marittimo di Hafen City, per me – dicevo – non vi sono dubbi: il peperoncino è necessario ed è l’attraversamento di un confine, è il Rubicone da passare e ripassare, è il dado da trarre. È un gusto da inventare. Anche l’amico Alessandro Benvenuti la pensa così.
Per contro, il limone mi atterrisce.
Adoro il limoncello, mi piacciono le torte e le marmellate al limone (meglio se miste), ho assaggiato con soddisfazione il risotto al limone, ma… non accostatelo, per favore, non accostate la fetta di limone alle bistecche o al pesce, vi prego.
Il limone, a contatto con la fetta alta e slanciata di una fiorentina cotta come si deve – quindi alta e rossa – o al cospetto di una frittura di pesce di quelle che non scordi mai perché non le vuoi scordare, è un omicidio, un gesto irresponsabile, un dispetto. Non si può.
Ancora peggio quando nel piatto si manifestano le fantastiche crudités, dall’ostrica al salmone. Ai miei venticinque lettori racconterò, al riguardo, un aneddoto, insieme insignificante e significativo.
Premetto che non sono un cuoco né un gastronomo, ma che, nel cibo, come nelle letture, amo seguire l’istinto e inventarmi un gusto personale.
Alcuni anni fa mi trovo a pranzo in un noto ristorante di pesce viareggino, da Massimo, se la memoria non mi inganna. Ordino le crudités come antipasto e, nella mia innocente ignoranza, mi rivolgo così al cameriere: “So di dire un’eresia, però, cortesemente, me le porti senza limone”. E lui: “Non è un’eresia. Le crudités vanno mangiate senza limone, che ha il solo effetto di cuocerle e di ucciderne la bontà”. Non so se ho riportato le parole esatte (il senso sì), né se il gentile signore – che peraltro, dopo pochi minuti, mi beneficia di un supplemento gratuito di ostriche! – abbia voluto darmi ragione, e sinceramente poco me ne importa. Per me va bene così: il mio ego è soddisfatto, il palato pure.
La morale di queste sconclusionate riflessioni? Qualunque sia la versione culinariamente corretta, sul peperoncino, sul limone o su qualunque altra cosa (potremmo ragionare anche del formaggio grattugiato sulla pastasciutta), una delle bellezze della vita è la scoperta che il gusto è una ricchezza da inventare.
Quotidianamente e… a ciascuno il suo. Con la consapevolezza che ci si deve in ogni caso schierare. Io l’ho fatto.