Parliamo di teatro e di enogastronomia con uno dei big del teatro nazionale e internazionale, Giancarlo Cauteruccio, regista, scenografo e attore. Uno dei registi più innovativi nell’area della seconda avanguardia teatrale italiana, noto nel nostro Paese e all’estero per la sua particolare poetica basata sul rapporto tra arte e tecnologia. Cauteruccio ha creato spettacoli teatrali affidati esclusivamente a elementi visuali. L’uso di monitor, laser e neon, all’interno di spazi virtuali. Con lui hanno collaborato Franco Battiato, Salvatore Sciarrino, Giusto Pio e Litfiba.

L’ultimo natro di Krapp, con Giancarlo Cauteruccio. Regia di Giancarlo Cauteruccio. Scandicci 2006.
Cauteruccio al Niccolini
Saranno due gli spettacoli che, fra pochi giorni, vedranno come protagonista Giancarlo Cauteruccio al Teatro Niccolini di Firenze. Nel bello spazio di via Ricasoli, potremo assistere a ‘L’ultimo nastro di Krapp’, da martedì 7 a giovedì 9 dicembre – da Samuel Beckett –, e al particolarissimo ‘Fame, mi fa fame’, da venerdì 10 a domenica 12 dicembre.
L’ultimo nastro di Krapp
“Questo ritorno nei teatri di Firenze – spiega Cauteruccio – ha un significato particolare. Il Niccolini ha voluto che raccontassi in sintesi la mia storia, nella quale, al di là del grande percorso tecnologico, esistono elementi che hanno molto a che vedere con il corpo e con la scena. Il primo dei due lavori è ‘L’ultimo nastro di Krapp’, di Samuel Beckett, che inizia con il rapporto fra la creatura beckettiana – il vecchio Krapp – e il cibo, cioè la banana. Krapp è un grande consumatore di banane.
La banana rappresenta quindi il cibo e diventa una sorta di nutrimento non solo organico, ma psicologico, per Krapp, lo scrittore fallito. In una prima versione dello spettacolo, tale aspetto era più ampio. Infatti, ancor prima della scena della banana, accoglievo gli spettatori cucinando un piatto di tagliatelle: una sorta di atto sensoriale.
Il profumo del sugo che preparavo si diffondeva nella sala, dopo di che ne spiattavo due porzioni, offrendone una al primo spettatore che incontravo in platea e consumando l’altra io stesso. Volevo rompere l’idea della solitudine: questa condivisione richiamava tutto ciò che è la ritualità della famiglia e degli amici, perché il cibo è un elemento di forte ritualità e condivisione.
Nella imminente versione del Niccolini non utilizzerò più la cucina, ma manterrò vivo il rapporto con la banana, quindi mangerò la banana di Krapp. Propongo questo spettacolo per tracciare una fase molto importante del mio lavoro, il rapporto con Samuel Beckett, il quale ha davvero saputo meglio di altri interpretare le problematiche dell’esistenza umana. Non solo: in Krapp ho incontrato sia la mia condizione di solitudine d’artista, sia il rapporto con la tecnologia, con la macchina.
Krapp interloquisce con un magnetofono, lo strumento attraverso il quale, a metà degli anni ’50, si poteva trasferire la propria voce su un supporto magnetico, la cosiddetta bobina, che diventa il contenitore di una memoria. Questo lavoro mette insieme le caratteristiche della mia stessa esistenza: è un testo a cui sono molto legato, in quanto sintetizza l’intera problematica del mio lavoro”.
Mi fa fame
“’Mi fa fame’ segna un altro mio importante percorso – prosegue l’artista -. In quanto persona emigrata, a un certo punto, ho avuto la necessità di recuperare la mia lingua madre e portarla con me nel mio viaggio creativo e artistico. Il momento che mi dedica il Niccolini è importante perché mette insieme il mio viaggio teatrale a Firenze e in Toscana: è una settimana che potrei definire proprio ‘di omaggio’ al mio percorso, visto che da poco ho abbandonato Firenze e la Toscana per tornare nella mia terra di origine, la Calabria.
Questi due lavori spero che siano di buon auspicio per poter rivedere il pubblico che, per venticinque anni, ha seguito il mio lavoro al Teatro Studio di Scandicci. Mi piacerebbe molto che quel pubblico che ha avuto l’opportunità di entrare nel vivo del teatro contemporaneo, della performance, dell’interdisciplinarietà, potesse approfittare di questo momento che io ritengo di festa, di condivisione di esperienze. ‘Krapp’ e ‘Mi fa fame’ vivono dentro di me.
Di fatto sono complementari, perché entrambi vivono sulla centralità del mio corpo, il mio corpo obeso, il mio corpo solo e patologicamente provato. Il primo interiorizza la mia condizione umana, il secondo la esteriorizza, con la sua denuncia contro chi ha scelto l’opulenza occidentale affamando il Terzo Mondo. Quindi il cibo e la fame diventano una problematica molto complessa, perché si muore per troppo cibo, ma si muore anche per la sua mancanza.
Con ‘Krapp’ viene fuori un’altra questione molto seria: il rapporto con il tempo. Cosa vale di più? Il presente, il futuro o il passato? Beckett dice che il ricordo è l’elemento che più ci aiuta a sopravvivere. Quindi, Krapp, dopo avere ascoltato nella prima fase il nastro di trent’anni prima, quando invece prova a registrare il nastro del ‘qui e ora’, blocca tutto.
Butta via il nastro appena registrato, riprende quello vecchio e lo riascolta, affidando la sua vita al ricordo, a un’esistenza vissuta. Lo spettacolo si conclude con il nastro che finisce la sua registrazione e continua a girare nel vuoto e nel silenzio. E sul silenzio che cala il sipario”.

L’ultimo natro di Krapp, con Giancarlo Cauteruccio. Regia di Giancarlo Cauteruccio. Scandicci 2006.
Cauteruccio in cucina
“Il rapporto tra la cucina e il mio lavoro è intensissimo -spiega Cauteruccio -. Posso dire di essere un grande cuoco, perché ho portato con me l’esperienza di mia nonna e di mia madre. Trasferitomi a Firenze all’età di 18 anni, dalla Calabria, ricorrere al cibo della mia terra fu un grande aiuto, poiché, almeno nei primi anni, colmò distanze e assenze. Poi è diventato una passione anche personale, vista la mia fisicità: si capisce che amo mangiare. Amo però pure preparare il cibo, prepararlo per condividerlo.
Questo è molto importante: è un po’ come il teatro. Ho nel cassetto un libro che non so se mai finirò, intitolato ‘Nel teatrino della mia cucina’: per me, il tempo di preparazione di una pietanza diventa un tempo di studio, meditazione, progettazione. Quando sto preparando uno spettacolo, uso i momenti culinari per far viaggiare la mia mente sul progetto su cui sto lavorando.
La cucina è uno strumento di creazione e studio: non c’è solo la parte commestibile, ma anche la spiritualità che ne scaturisce. In questi anni, ho cercato di combinare la mia antica esperienza della cucina calabrese con la conoscenza del nuovo, della cucina fiorentina e toscana e di molte regioni d’Italia.
Avendo avuto una vita di tournées, ho frequentato la maggior parte delle città italiane: come si sa, i teatranti, a fine spettacolo, hanno il rituale della cena, quindi ogni volta vai a scoprire piatti appartenenti al luogo in cui ti trovi. Così potrei dirti che il baccalà come lo fanno ad Ancona non lo fanno da nessuna parte! O la bagna cauda di Torino, l’ossobuco con risotto di Milano.
Questi sono i piatti che incontri e ‘certificano’ la tua presenza in quel posto. Ecco perché viaggiare e mangiare sono molto legati: io non me lo posso permettere per motivi di lavoro, ma ho amici che viaggiano proprio alla ricerca di alcune pietanze da ‘verificare’ nel luogo di origine”.

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La tua ricetta preferita?
“Non ce l’ho: se l’avessi, tradirei tutte le altre. Però amo molto la cucina che ha a che vedere con verdure e interiora. A tal proposito, qualche settimana fa, ho mangiato un piatto eccezionale in un paesino arbëreshë della provincia di Cosenza: uno spezzatino di trippa di capra impressionante!
Senza nulla togliere alla trippa alla fiorentina, ho raggiunto livelli sensoriali appunto impressionanti! Poi, pur essendo calabrese, negli anni ho avuto necessità di verificare una serie di piatti: quando si parla di Calabria, si pensa subito al peperoncino, ma, in realtà, la cucina piccante, in Calabria, è davvero poco diffusa.
Il piccante è magari una cosa quotidiana
Il piccante è magari una cosa quotidiana: mio padre metteva sugli spaghetti un pizzico di peperoncino fresco. Non posso dire di essermi formato su una cucina piccante, piuttosto su una cucina molto saporita ed elaborata. Comunque, una delle ricette che amo è il risotto con le patate, un piatto semplicissimo e poverissimo, che ho anche offerto, per esempio, ad amici giornalisti che venivano a Scandicci da Milano o da Roma.
Un piatto che sembrerebbe un controsenso perché aggiungi carboidrati a carboidrati e zuccheri a zuccheri, però è eccezionale! Una pietanza più complessa sono le melanzane ripiene al forno, che richiedono una procedura particolare, perché la melanzana è vero che è una verdura semplice, però ha una sua complessità: come diceva mia nonna, la melanzana è praticamente acqua. Quindi, bisogna renderla appetibile. Le verdure possono essere un piatto povero e, in molte cucine, c’è questa volontà di ‘nobilitarle’. Certo, la melanzana puoi mangiarla alla griglia, tuttavia, se la elabori attraverso un procedimento abbastanza lungo, produce un risultato straordinario”.
Con le carni come va?
“Non amo le carni rosse, ma quelle bianche – conclude Cauteruccio -. Quindi, ho grandi ricette sul pollo, sul coniglio, sull’agnello. L’agnello è una delle mie carni preferite, insieme alla capra e alla pecora: cibi che ti permettono di arrivare a ricette straordinarie, di grande sapore, ma anche leggerezza. Non è vero che certe cucine si caratterizzano come pesanti: dipende da come utilizzi la cosiddetta materia prima. In generale, il mio rapporto con il cibo è di grande piacere: è uno strumento di condivisione. Il cibo, in Calabria (molto meno a Firenze), è celebrativo. Il cenone della Vigilia di Natale, con le sue tredici pietanze tutte a base di verdure e di pesce, è un rituale. È una cena in cui non possono esistere né uova né carne. È un rituale che si compie dopo un lunghissimo lavoro anche di ricerca ed elaborazione di cibi e ingredienti, così come è un rituale la pasta e ceci nel Giorno dei Morti”.
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