Il 12 dicembre del 1996, al cinema Ariston di Firenze, si proietta Il Ciclone. È la prima nazionale. Da allora, in questo quarto di secolo tondo tondo, sulla fortunatissima pellicola di Leonardo Pieraccioni, si è scritto molto e bene e soprattutto la si è vista, rivista e ancora rivista. Un fenomeno, insomma. C’è anche un libro, Il Ciclone quando passa (IL LIBRO), composto a quattro mani dal sottoscritto e da Philippe Chellini in occasione del ventennale, che ne racconta la storia e tutti i retroscena. Tutti o quasi…

Quasi perché non è stato mai narrato fino in fondo come sia nato proprio “il ciclone” del film, ovvero il gruppo di ballerine della compagnia di flamenco che irrompe nella vita della famiglia di Levante Pieraccioni. Lo facciamo oggi intervistando Romina Pidone, la coreografa che creò quella alchimia…

 

Parliamo di flamenco con Romina Pidone!

 

“Nasco come danzatrice e coreografa – si racconta Romina Pidone -: coreografie per il cinema, appunto per ‘Il Ciclone’, ma anche danzatrice in ‘Ritratto di signora’ di Jane Campion (disponibile su Chili qui ), nella bellissima scena del ballo, con coreografie della mia amica e collega Flavia Sparapani. Ho lavorato in compagnie di danze storiche, rinascimentali e contemporanee, partendo dalla danza classica, in tutta Europa, anche rielaborando grandi opere del passato, da Monteverdi a tutto il repertorio dei drammi sacri.

Una scoperta dopo l’altra, un arricchimento di esperienza e cultura. Poi mi sono concentrata molto presto sull’insegnamento, adesso con una scuola di danza che ha ventitré anni di attività: Danza La Follia , ha sede a Lastra a Signa ed è nata insieme a Flavia Sparapani, per me grande maestra di vita. Ho cominciato a sette anni, in Calabria, all’Accademia Internazionale di Danza di Isabella Sisca, poi mi sono trasferita alla Scala di Milano, concludendo là il mio percorso di studi per accedere al diploma di insegnante di danza. Ho proseguito a Firenze alla Scuola Collin, con Rossella Bechi e Antonietta Daviso, incontrando il maestro Josè Fernando Hiram, danzatore del balletto nazionale di Spagna. Con lui ho iniziato a diciotto anni il mio viaggio nella danza spagnola, che poi si è ricollegato alle danze rinascimentali e barocche. È stata una catena: un genere portava l’altro. Tutto questo mi ha condotto a essere scelta per le coreografie del Ciclone di Leonardo Pieraccioni”.

Il Ciclone secondo Romina

 

“L’esperienza del Ciclone – racconta Romina Pidone – fu un fulmine a ciel sereno. Avevo lavorato principalmente in teatro, pur avendo all’attivo qualche produzione cinematografica (documentari francesi, riprese di balletti). Però avevo danzato in ‘Ritratto di signora’ di Jane Campion, per cui avevo visto come sia la danza nel cinema: totalmente diversa dal teatro. Stavano cercando una coreografa su Firenze, il gancio me lo dette sempre Flavia Sparapani. Andai a fare il provino con Pieraccioni. Quando mi disse cosa voleva, acchiappai al volo la sua idea: non voleva danzatori professionisti, se no avrebbe preso una compagnia e chiesto uno spettacolo.

Io capii: ‘Come quando a una festa sanno che balli e ti dicono ‘dai, via, facci vedere qualcosa’?’ E lui: ‘Brava, io voglio questo, una musica che non ha niente a che fare con una musica di danza spagnola o flamenco, una musica qualsiasi che riporta solo per alcune sonorità iniziali alla Spagna e dopo una sorta di improvvisazione’. Questo doveva essere. Io avevo capito lo spirito. Mi chiesero del materiale. Feci delle volate in treno da Firenze a casa dei miei a Pescia per recuperare il materiale: con doppio vhs copiai le videocassette, tornai a Firenze e spedii il tutto con il corriere a Roma all’indirizzo datomi dall’assistente alla regia Gaia Gorrini, che una settimana dopo mi chiamò: ‘Romina, sei dei nostri’.

Che dire? Ero felice! Ero giovane, avevo 28 anni. E lì cominciò l’ansia da prestazione! Feci il sopralluogo anche con Leonardo, andai a prendere la musica, constatai le difficoltà: la ghiaia in terra costringe un danzatore a calcolare diversamente i tempi, sulla ghiaia ci vuole più tempo per girarsi. Conservo ancora la musicassetta che mi dettero! All’epoca c’erano le musicassette! Tornai a casa e cominciai a lavorare fino al momento fatidico: eravamo ad Arezzo nel giorno in cui ci siamo conosciuti, nella hall di un albergo: tutti avevano una paura!!! Giustamente direi: era un percorso nuovo per ognuno di noi.

A parte Natalia Estrada, impeccabile danzatrice professionista con formazione all’Accademia di Barcellona, le altre erano bravissime attrici di teatro, due modelle, Pilar che ballava perché, essendo l’unica vera andalusa, aveva imparato da piccola sull’aia, le altre avevano preso qualche lezioncina, la protagonista Lorena Forteza zero. Erano un po’ in soggezione di fronte a me, però l’ambiente era allegro e festoso. Barbara Enrichi – persona molto dolce, mai sopra le righe – fu molto accogliente e il ghiaccio si ruppe. La prima lezione fu la prova del 9.

Natalia fu scaltrissima. Facemmo la prova, io detti le posizioni, modificando in parte quelle della sceneggiatura. Leonardo approvò, anche perché avevamo solo due settimane e… le bacchette magiche non le ha nessuno! Alla fine della prima prova, io feci: ‘Natalia, se vuoi andare vai, io resto con loro e provo un po’ di più’. E lei mi chiese a bruciapelo: ‘L’Escuela Bolera l’hai mai studiata?’ Mi girai verso di lei: ‘Penso che sia l’espressione più bella dell’intero panorama delle danze spagnole’.

Mi guardò e mutò subito atteggiamento: ‘Sei la prima persona in Italia alla quale faccio questa domanda e sa di cosa sto parlando’. Da quel momento il rapporto fu un crescendo con tutte: eravamo come fra amici all’agriturismo. Quindici giorni di lavoro, armonia, divertimento, collaborazione, legami fortissimi andati avanti pure dopo. Ogni sera era una festa. In questo Leonardo è molto bravo: è silenzioso, osserva, fa la battuta al momento giusto, però riesce a tenere le redini anche delle persone un po’ più difficili, sa gestire le persone. Mi ricordo quando Massimo Ceccherini cadde in terra durante le riprese della scena del ballo.

Avevamo già pensato di bloccare tutto. Diventò tra il verde e il giallo, si mimetizzava con i girasoli, dritto in terra come un palo di legno, svenuto! Stava dando il famoso ramato girando intorno a Pilar con il sole a picco. Ci prese un accidente. Poi con dell’acqua si riprese: ‘Sto bene, sto bene!’ e la scena del ramato ricominciò. In generale, ricordo l’esperienza del Ciclone con molta gioia e allegria”.

Il Ciclone è disponibile su Prime Video qui

Insegnare danza oggi

 

“Insegnare danza oggi è diverso da quando ho iniziato negli anni ’80, ma anche a scuola: il genitore delega troppo, pensa che l’educazione dei figli spetti all’insegnante, che vedono come loro surrogato, e che le cose debbano essere concesse subito ai bambini. Se oggi i bambini non hanno pazienza, è perché non ne hanno i genitori. E lo dico da genitore! Ciò è molto triste: le cose non si fanno tutto e subito. Nella danza, ci vogliono anni di preparazione, si deve imparare la concentrazione e cos’è il corpo, dov’è un piede, dov’è una gamba, qual è la destra, qual è la sinistra, la gestione dello spazio in armonia con il compagno, il rispetto dell’altro. Si deve partire da lì.

La difficoltà per mettersi al passo sempre con i tempi è far capire che non puoi avere tutto subito. Arrivano a quattro/cinque anni e chiedono: ‘quando si metteranno le punte?’. Quando dici che le punte, se si mettono, si mettono a undici/dodici anni, rispondono: ‘Come? Così tanto?’. Lì devi cominciare a spiegare. Si deve partire prima dall’educazione del genitore.

Il mondo oggi è ‘mordi e fuggi’: la difficoltà sta nel riuscire a proseguire un percorso. Così, magari, cominciano in tanti, ma arrivano in pochi. Bisogna farli sentire ‘gruppo’, farli amalgamare, insegnare a saper dosare il divertimento e, attraverso quello, inserire i concetti di serietà, dedizione, passione. Però, se riesci a creare e fortificare un gruppo, a farlo sentire squadra, fai crescere tutti e li porti a fare qualcosa in più. Non tutti diventano grandi danzatori, ma un pubblico per il teatro sì!”.

Che cosa ti commuove nel tuo lavoro di insegnante?

 

“Quando, anche dopo molti anni, gli allievi mi ringraziano. Vuol dire che, oltre l’insegnante, è arrivata la persona, che ho insegnato ad approcciarsi alla vita e ad affrontare le difficoltà: sono riusciti, con la determinazione imparata a lezione con me, ad avere la fiducia in se stessi e andare avanti. Sentono l’appartenenza a qualcosa di importante, al di là delle possibilità tecniche. Ora lavoro molto con preadolescenti e adolescenti. Deve passare il messaggio di una crescita sana nel rispetto dell’altro, piuttosto che insistere per avere un arabesque perfetto. Vedo che questo messaggio passa: è il dono più grande del mio lavoro”.

Un’alimentazione per la danza

“Chi fa danza o attività fisica deve avere rispetto per il proprio corpo. Ho frequentato la scuola di naturopatia e sono responsabile dei piani nutrizionali in un asilo nido, anzi la mia tesi sarà proprio sulla nutrizione nella prima infanzia. In generale, la dieta deve essere variata, evitando i prodotti confezionati e riscoprendo il territorio. È inutile importare dagli Stati Uniti una farina che abbiamo a km0 vicino casa ed è quella che assomiglia al tuo fabbisogno, perché sei nato e cresciuto in un certo ambiente.

L’alimentazione deve essere: frutta, a stomaco vuoto per assorbirne al massimo le proprietà nutritive; verdura di stagione (purtroppo in tanti non sanno più quale sia la roba di stagione perché al supermercato i prodotti cambiano solo posizione!); dare spazio al colore giusto nella stagione giusta. Poi, come dice la mia fantastica insegnante di nutrizione Tatiana Paoli, se vuoi fare lo stravizio, lo puoi fare, perché ciò che mangi deve essere anche preparato con amore, e se è preparato con amore, pur con quell’untino in più, però c’è l’amore della persona che l’ha fatto, si è presa del tempo, l’ha fatto con calma, perché cucinare è donare, per questo ti farà meno male.

Bisogna poi essere equilibrati, alzandosi da tavola senza sentirsi pieni e bere tanto. Certo, ci sono delle cose… io sono un’appassionata di pizza! Levami la pizza e mi farai del male. Ogni tanto ci vuole! Mangiare è anche uno dei massimi piaceri della vita. E poi la convivialità. Quindi, riassumendo, i miei consigli: frutta a stomaco vuoto, tante verdure crude e preferenza per le cose di stagione. Non sono fra quelli che dicono no assolutamente alla carne: anche in quel caso, come tutto, bisogna ricercare il produttore di zona. E poi l’olio vicino casa. Prediligere e dare una mano a chi che non fa produzione massiva: fa bene all’ambiente e al nostro corpo”.

In cucina, quali sono le tue specialità?

 

“Sono fissata con pane, schiacciate, pizze. La panificazione mi piace da morire. Durante il lockdown, mi sono specializzata nella pizza, approntando una tecnica scovata anche tramite amicizie e internet e ora la pizza io la faccio così: per mezzo chilo di impasto, metto 300 millilitri di acqua tiepida, un pizzico di sale e un pizzico di zucchero, e giro bene in modo che non restino residui in granuli, aggiungo 350 grammi di farina bianca (si può usare pure quella integrale), due o tre cucchiai d’olio di oliva e una puntina di lievito di birra. Faccio amalgamare il tutto e aggiungo 150 grammi di farina di semola. Con la farina di semola, la pizza viene… il top!

Lascio riposare per una mezz’ora con un panno bagnato sopra, quindi, quando il tutto è cresciuto un po’, faccio le palline. Con mezzo chilo vengono quattro palline. Quando l’impasto è lievitato (6/8 ore), lo faccio dapprima scaldare in una padellina tonda con coperchio. Se uno vuole fare la focaccia, non ci mette niente, la gira sotto e sopra. Se invece si vuole fare la pizza, ci si mette il pomodoro e si condisce con quello che si vuole. A me piace la caprese: pomodoro fresco, mozzarella buona di bufala, foglie di basilico.

Insomma, inizia a cuocere con coperchio sul fuoco a fiamma bassa, in modo che sotto diventa croccantina, poi la parte sopra si finisce di cuocere in forno a 220/240 gradi. Così la pizza non ti rimane molliccia sotto, ma, appunto, croccantina e ha la cottura pure sopra. Spesso se metti la pizza in forno che sotto è ancora cruda, sotto rimane un po’ mollicciona. Gli amici dei miei figli mi chiedono: ‘Perché non apri una pizzeria a taglio?’. Io però preferisco farla a casa!”.

Le altre specialità di Romina

 

“Mi piace fare le melanzane alla parmigiana e… mangiarle! Ho trovato il modo di non far loro assorbire troppo olio. Prima le metto in forno e le faccio appassire, così l’acqua inizia ad andare via. Però la melanzana deve essere fritta per essere buona! Se prima la passi in forno, si asciuga, poi la passi nell’olio e viene eccezionale e meno pesante. Peccato si facciano d’estate quando fa più caldo! Una cosa che invece non so fare, ma che la mia mamma cucinava benissimo, è il brasato. È una cosa che mi piace mangiare… però ci sono cose di cui ti resta il gusto di non saperle fare e il fatto che te le sappia fare qualcuno. È una coccola: il cibo, fin da bambini, è una coccola. Il cibo è la mamma”.

Ricordi di viaggio

“Ho viaggiato molto con le compagnie. Uno dei direttori, Andrea Francalanci, amava portarci nei posti dove andava a mangiare quando si spostava. Ho un bellissimo ricordo di quando siamo andati in Olanda, a Utrecht, per un festival di musica antica. Andammo in un tipico pub nordico, dove mangiai un pesce che era la fine del mondo, un vassoio ovale enorme e buonissimo di vari tipi diversi di pesce, con salsine e le immancabili patate. Invece, in Danimarca, entrai in un supermercato e rimasi allibita perché pensavo che l’aringa fosse una e una soltanto. Lì c’erano frigoriferi pieni di aringhe e io mi chiedevo: ‘ma è possibile che esistano tutti questi tipi di aringa?’. Affumicate, non affumicate, speziate, c’era di tutto di più. Più gusti di quelli del gelato!”.

Quale modo più dolce di questo per augurare… buon compleanno, Ciclone!