Quando abbiamo visto la copertina dell’ultimo libro di Francesco Giannoni, C’era una volta l’Ataf, con il mitico autobus a due piani dell’Azienda Trasporti dell’Area Fiorentina che ha accompagnato (anche nel senso letterale del termine) più generazioni del secondo dopoguerra, non abbiamo resistito. Era tanto che desideravamo fare una chiacchierata con il giornalista e scrittore sui suoi libri e sulla sua attività: ora è il momento.

Giannoni, fiorentino bastardo Doc e “scrivitore”

Giannoni, fiorentino del 1960, si ritrae così per i nostri lettori:  “Ho sangue fiorentino, maremmano e lombardo: sono quindi un bastardo Doc. Ancora più bastardi, Docg, sono i miei figli, visto che la loro mamma è calabrese con quattro gocce di sangue austriaco. Sono laureato in Lettere con una tesi in Storia contemporanea. Ho lavorato come informatore medico-scientifico (che con la laurea in lettere ha un nesso inscindibile), come insegnante e come redattore tuttofare in una casa editrice fiorentina. Dal 2005 sono libero professionista in àmbito editoriale, dal 2015 giornalista pubblicista e dal 2016 potrei fregiarmi della qualifica di scrittore. Potrei ma non lo faccio, perché, fra Giannoni e Vichi, Malvaldi e Gimenéz Bartlett (senza scomodare i classici), c’è una certa differenza. Io, al massimo, sono uno scrivitore”.

L’ultimo libro uscito

C’era una volta l’Ataf è il tuo ultimo libro, ovvero come raccontare Firenze attraverso aneddoti ed episodi del servizio di trasporto pubblico cittadino. Quale immagine ne hai tratto di Firenze e quale dei fiorentini? È diversa la città se vista dalle quattro ruote di un bus, magari di quelli a due piani?

“Mi sono divertito a scrivere di Firenze vista dall’insolita prospettiva che scorre attraverso i finestrini degli autobus. Nonostante la velocità dei mezzi, traffico a parte, e i vetri a volte sporchi, Firenze incanta sempre. E poi è una panoramica gratuita della città. Ed è pure riposante, visto che spesso l’ho ‘visitata’ stando seduto, soprattutto ora che ho una ‘certa età’ e posso accomodarmi senza provare sensi di colpa.

Mi sono divertito anche a tratteggiare personaggi a volte spassosi che si incontravano ogni tanto sugli autobus. Ora qualcosa è cambiato. C’è molto più silenzio, la gente parla meno, visto che quasi tutti hanno gli occhi incollati sui cellulari. Gli autobus a due piani erano il mio sogno di bambino. Ci sarò salito un paio di volte in tutta la mia vita, visto che percorrevano linee che non usavo. Mi ricordo che la prima volta che ci salii, avrò avuto sei o sette anni, mi fiondai al piano di sopra trascinando mia mamma. Fu una vera emozione!”.

La tua produzione editoriale spazia però su punti di vista diversi su Firenze e sulla Toscana, con vari e interessanti approcci…

“Ogni scarrafone è bello a babbo suo… quindi, per non far torto a nessuno dei miei libri, i miei “bimbi”, andrei per ordine cronologico. ‘Il viale dei Colli a Firenze – Storia e storie di una delle vie più belle del mondo’ è uscito nel 2016 (Florence Art Edizioni). È nato da un’idea che mi venne percorrendo il vialone, quando da casa dei miei genitori (abitavano fra Porta Romana e le Due Strade) tornavo a casa mia, vicino a piazza Santa Croce. L’idea fu di scrivere un libro che parlasse del vialone e delle strade e delle piazze a esso immediatamente afferenti, così ricche di storia.

Nel testo, mi sono soffermato sui monumenti più illustri, come la Basilica di San Miniato o San Salvatore o lo stesso piazzale Michelangelo e sulle bellissime magioni costruite lungo le varie strade, come Villa Cora. Ho parlato delle istituzioni culturali e sportive, come l’Istituto Olandese di Storia dell’Arte e gli Assi Giglio Rosso. Ho scritto dei giardini grandi e piccoli, per esempio il Bobolino, il Giardino delle Rose, quello dell’Iris. Infine, ho cercato di mettere in luce particolari che spesso non si notano, come lapidi, tabernacoli e cancelli in ferro battuto, manufatti a volte semplici, a volte vere e proprie opere d’arte. Ho ‘scoperto’ angoli e angolini, personaggi e curiosità, storie e storielle che mi sono divertito a narrare e che mi hanno arricchito.

Da Firenze alla  Toscana

È seguito nel 2017 ‘Terme in Toscana – Itinerari e sorgenti della Toscana’ (Moroni Editore). Non conoscevo il tema: non sono un fruitore termale. Cesare Moroni, editore della Maremma mi chiese di scrivergli un libro sull’argomento. Sulla base di un precedente testo edito da Le Lettere, ho cominciato a scrivere e soprattutto a viaggiare per la Toscana. Ho scoperto il mondo delle terme e delle sorgenti, un mondo fatto di composizioni chimiche per me astruse, ma anche pieno di Storia, soprattutto se pensiamo ai personaggi che le hanno frequentate, da Pio II a Lorenzo il Magnifico, a musicisti, viaggiatori, scrittori, attori, oltre alle tante persone ‘normali’. E poi, presso le terme, quanti monumenti! Che natura! Mi sono divertito e mi sono arricchito.

 

Il libro più caro

Ancora una volta. ‘Quei lontani sogni cattivi – Memorie di un prigioniero toscano della Grande Guerra’ (Sarnus, 2018) è forse il libro che mi è più caro dal punto di vista sentimentale. Quel ‘prigioniero toscano’ è mio nonno Faustino Giannoni, un nonno che non ho conosciuto. Quindi l’autore del libro è lui, io sono solo il curatore. Dopo la morte di mio padre, mettendo in ordine le sue carte, sono saltati fuori dei fogli scritti a mano con una grafia impeccabile. Erano le memorie di mio nonno, che narra della sua prigionia in Austria e Boemia.

Una scoperta sotto tutti i punti di vista. Ho potuto vedere e toccare con mano qualcosa di suo, leggere come pensava e come sentiva, scoprirlo in una dimensione davvero intima e personale. Un prigioniero che ha patito la fame, il freddo e le malattie, che vedeva morire come mosche altri prigionieri, italiani e non, che veniva maltrattato dai suoi carcerieri, ma che non ha esitato a mettere in luce i loro aspetti positivi.

Quando si ammalò, fu portato in ospedale dove fu trattato con umanità e anche con dolcezza. Al momento in cui gli fu rubata la mantellina, un secondino austriaco non esitò a regalargli un cappotto militare austriaco. Quando fu trasferito in Boemia a lavorare, fece amicizia, per quanto possibile, con la famiglia di contadini presso cui lavorava. E veniva pagato. Poco, ma veniva pagato. Poi, la domenica aveva libera uscita e poteva andare dove voleva, partecipava alla vita sociale del villaggio, per esempio alle feste dove ballava con le ragazze del luogo. Nonostante le sofferenze, la rabbia e la paura, Faustino non ha mai perso l’intelligenza e la sensibilità per guardarsi intorno, annotando usi e costumi di Paesi che, allora, erano un altro mondo. Penso che sia un documento storico interessante, anche perché non esistono molti testi sulla prigionia durante la prima Guerra Mondiale, visto che tanti soldati erano analfabeti”.

Quanti spunti, quanti argomenti, quante idee, quanto sentimento… e non è finita.

’La Maratona di Firenze – I protagonisti’ è uscito nel 2019 per Mauro Pagliai Editore. Sono venti interviste ai ‘protagonisti’ di questa gara che a livello amatoriale non è una gara contro gli altri, ma contro se stessi, per poter dire, tagliando il traguardo, ‘ce l’ho fatta, ci ho messo quattro ore, ma ce l’ho fatta’. Gli atleti sono i più vari: dal medico all’impiegato, dal commercialista al prete, al disabile, al cameriere, al geometra ecc. Ho incontrato belle persone che si sono aperte rivelandomi tanto di se stesse.

Fra gli atleti, ho intervistato Alberto Lucherini, che la Maratona di Firenze l’ha vinta due volte, con tempi, allora, di assoluto rilievo; e Fabrizio Caselli, vincitore fra i disabili. Ho intervistato anche la cabina di regia: Giancarlo Romiti, il presidente della Firenze Marathon, Cosimo Guccione, assessore allo Sport del Comune di Firenze, Alessio Focardi (che fra le molte cose, è delegato delle Federazione Italiana Sport Paralimpici degli Intellettivo-Relazionali) ed Eugenio Giani, allora presidente del Consiglio Regionale della Toscana, ma anche amante dello sport e atleta (da giovane).

Ho fatto due belle chiacchierate con Fulvio Massini, guru di tanti maratoneti, e con Raffaello Paloscia, gloria del giornalismo fiorentino, oltre che persona squisita. Infine, ho parlato della storia: da Filippide a Spyridon Louis, dal grande e sfortunato Dorando Pietri ai nostri ori olimpici Gelindo Bordin e Stefano Baldini. E poi… ‘C’era una volta l’Ataf – I Fiorentini e la loro città in un insolito ritratto’, del 2020, uscito per la Società Editrice Fiorentina. Ma ne ho già parlato prima”.

In tutto questo tuo raccontare Firenze e la Toscana, ci sono episodi o racconti enogastronomici?

“Quando ero più giovane, ho adorato l’Antico Moro di Livorno di cui ero un assiduo frequentatore. Che locale! Nonostante fosse in un angolino anonimo della città, per me era il miglior ristorante della Toscana. Forse anche del mondo, visto che alle pareti è appeso un programma di sala di un concerto di Arthur Rubinstein su cui il grande pianista, ha scritto ‘Bravo Romano, il re del pesce!’ e se lo diceva lui, artista che frequentava i migliori locali del globo…

Ma ci sono anche gli autografi e gli apprezzamenti di Gazzelloni, Ghiglia, Pollini, Richter e Segovia. Io un cacciucco come quello dell’Antico Moro non l’ho più mangiato. E poi le cèe! (quando si potevano mangiare). Le cèe al burro con sopra una spolverata di pepe e una grattugiata di parmigiano. Una ghiottoneria da andare in estasi. I polpetti affogati! E che dire di una bella orata fatta come Dio comanda, con una goccia d’olio crudo sopra. Perché avevano buono anche l’olio. Poi c’era un locale a Massa, o a Carrara, non mi ricordo più (spero di non essere maledetto da massesi e carrarini). Lì ho provato i muscoli (le cozze) ripieni. Una bontà. A Greve in Chianti, in due ristoranti con vista sulla magnifica piazza triangolare, ho mangiato due piatti spettacolari: l’arista di Cinta senese e il Gran fritto alla contadina”.

E i tuoi vini e piatti fiorentini quali sono?

“Non sono un enologo, ma solo un bevitore curioso e volenteroso. I vini toscani sono ottimi tutti, anche se, per me, il nostro vino, per essere d’eccellenza, deve essere rosso. Ci sono dei buoni bianchi, ma secondo la mia opinione, modestissima, non reggono il confronto con quelli del Triveneto o del Meridione. Con Chianti, Brunello e Nobile, invece, si va sul sicuro e non temiamo confronti.

Fra i nostri piatti, bistecca, ribollita e pappa sono principeschi. Il nostro pane, sciapo, anzi ‘sciocco’, così criticato altrove (‘ma non sa di niente!’…), è una meraviglia: proprio perché non sa di niente esalta i sapori tenui e smorza quelli forti. E poi non è vero che non sa di niente: la farina ha un sapore, basta avere le papille gustative che funzionano a dovere. Lasciami spendere una parola, e anche due, su piatti poveri, anzi poverissimi, come trippa e lampredotto. Sublimi! Dal lampredottaio dove ogni tanto vado io, fanno anche la guancia al pomodoro. Uno spettacolo!”.

Cupola del Brunelleschi foto di Roberta Capanni

Da giornalista e da fiorentino, per te Firenze è…?

“La città dove ho avuto la fortuna di nascere. È difficile, anche quando sono di corsa, che non mi soffermi, magari solo per un attimo sulla cupola di messer Pippo o sul campanile di Giotto o sul Ratto delle Sabine di quell’’extracomunitario’ di Giambologna, tanto per fare due esempi. La amo, Firenze, ma sono anche critico; d’altra parte sono fiorentino… Noto, a ogni livello, una certa resistenza al nuovo: l’architettura e l’arte contemporanea sono relegati in periferia, in una sorta di lazzeretto per non contaminare niente e nessuno.

Un capolavoro come ‘La pluie’ di Folon fa da spartitraffico accanto al Tuscany Hall. La ‘Paloma’ di Botero è sulla sinistra della curva a destra che immette alla Firenze-Mare. Come si fa a vederli? Come si fa a goderne? È vero che dei passi in avanti sono stati fatti: il Museo Novecento, le mostre di arte contemporanea a Palazzo Strozzi, una decina di statue sempre di Folon al Giardino delle Rose. Ma bisogna avere coraggio, lo stesso che avevano i fiorentini del ‘500 quando mettevano un’opera ‘contemporanea’ come il Perseo in un contesto medievale, e centrale!, come la Loggia dei Lanzi”.

Superiamo Firenze, soprattutto passando attraverso le tue fotografie: quanti e quali luoghi italiani e non hai immortalato nelle tue bellissime immagini?

“Prima di tutto ti ringrazio per l’apprezzamento verso le mie foto. Mi piace viaggiare e vorrei visitare tutto il mondo. Non avrei problemi. Avessi i soldi… In Italia, c’è solo l’imbarazzo della scelta e, ovunque ci sono tesori conosciuti e sorprese inaspettate. Recentemente sono stato alle Cinque Terre. Che bellezza. Ad agosto, ho visitato un po’ di Molise. Una scoperta. In Molise, sono stato al Teatro Sannitico-Romano di Pietrabbondante.

Già 2500 anni fa, avevano pensato alla comodità degli spettatori e alla salvaguardia delle loro schiene: il teatro è dotato di sedili inclinati e di sostegno lombare. Sono comodissimi. È l’unico teatro antico ad averli. E parliamo di 2500 anni fa. Ti rendi conto? Mi piacciono tantissimo la campagna marchigiana e, in Friuli Venezia Giulia, il Collio, zona enoica con i suoi vigneti così scenografici.

Fuori dall’Italia, amo il Portogallo. Lisbona è magnifica, Porto è struggente, la valle del Douro uno dei posti più belli del mondo, l’oceano ha un respiro che il nostro Mediterraneo non ha. In Grecia sono stato da ragazzino, avevo 16 anni. Andammo a visitare Delfi. A quel che mi ricordo, le rovine sono sul fianco di una collina. Era Pasqua, c’era il verde tenero della primavera. Era appena venuto uno scroscio di pioggia e poi era rasserenato. I marmi e le foglie degli alberi erano puliti e brillavano sotto i raggi del sole. Da piangere! E poi, il Togo, in Africa. Ti assicuro che stare seduto su una panca, fuori dell’albergo, a vedere passare la gente, bellissima ed elegantissima, con quei colori che solo loro sanno portare, è uno spettacolo unico e indimenticabile”.

E in questo girovagare quali leccornie hai incontrato?

“Guarda, a parte ragni fritti, sauté di scorpioni e tranci di pitone alla griglia, mangio tutto, non ho problemi. La cucina italiana è buona in ogni regione. Non capisco e non sopporto i campanilismi di tanti, secondo cui ‘come si mangia da noi, voi ve lo sognate’. Da toscano e da fiorentino, secondo me i migliori primi piatti sono romani e laziali: tonnarelli cacio e pepe, amatriciana e carbonara. Anche se per me, il miglior primo in assoluto è spaghetti aglio olio e peperoncino: una bontà geniale e di assoluta semplicità.

Altre leccornie? Apprezzo davvero una bella spigola all’acqua pazza. Ma anche al sale fa la sua porca figura. E poi, spilluzzicando qua e là nelle varie regioni, il pesto alla genovese, il baccalà alla vicentina, il fegato alla veneziana, il risotto alla milanese, il bonet, dolce piemontese. I cannoli alla siciliana? La prova che Dio esiste. Rafforzata anche dalla pasta con sarde e finocchietto selvatico. Sono blasfemo? Dio mi perdonerà se apprezzo la bravura in cucina delle sue creature.

E poi i vini. Il re? L’Amarone. Della cucina straniera preferirei non parlare, i miei viaggi non sono mai stati così lunghi da conoscere le specialità locali in modo approfondito. Ti posso dire che ho mangiato bene ovunque: basta evitare i locali troppo turistici. Comunque, ho coniato un detto mio personalissimo: ‘vini, cibi e donne: il mondo non ha confini’. Per le donne il discorso è teorico, visto che sono sposato!”.