Fin dal medioevo le cronache giornaliere cittadine e i pettegolezzi di vita quotidiana, ci raccontano di un antico mestiere, la lavandaia. Una figura utile, presente a Firenze come in altre città, dove la quotidianità scorreva in maniera semplice. Era il tempo in cui anche le famiglie, anche più benestanti, osservavano la parsimonia come una regola di educazione. Nessuno usciva da casa se non perfettamente pulito, con vestiti immacolati, senza pieghe, per non somigliare alla moltitudine stracciona e miserabile che si vedeva per le strade delle città di fine ed inizio secolo.
Quindi era necessario che i panni fossero lavati e stirati, almeno per i ricchi. Il fiume, i corsi d’acqua era “l’ acqua corrente” necessaria a lavare il bucato. Ma non tutto poteva essere svolto in piena città;per lavare i panni più grandi, le tele o anche molti indumenti, si doveva andare nelle campagne intorno. A Firenze due erano le località che si contendevano il lavoro, Grassina e Bagno a Ripoli. Interessante, a tal proposito, questo estratto di cronaca riportato dal Silvano Guerrini:
Inchiesta industriale: le lavandaie a Firenze
“L’inchiesta industriale del 1768 ci permette di sapere, attraverso i documenti dei deputati della Lega del Bagno a Ripoli, che proprio in questo territorio, maggiormente impegnato di altri in tale attività, si curavano tele di diversa qualità per i mercanti fiorentini. I dati ci dicono poi che annualmente venivano trattate 280 tele lunghe dalle sessanta alle oltre cento braccia ciascuna, per una lunghezza totale che superava i ventimila metri lineari. Nell’Ottocento la concentrazione lavorativa fu esclusivamente sul bucato della borghesia fiorentina”(tratto da “L’Arno in Pian di Ripoli” a cura di Silvano Guerrini 1990, Bagno a Ripoli – Centro Studi sulla Cultura Contadina)
I luoghi prescelti sul fiume per i bucati, divennero luoghi d’incontro. Le lavandaie si scambiavano le informazioni che sentivano ognuna provenire dalla padrona alla quale prestavano servizio e, ancora oggi, per definire una donna pettegola si usa il termine di “lavandaia”. Anche i preziosdi ricami di Firenze venivano lavati con cura dalle lavandaie. (LEGGI il nostro articolo sui ricami)
Come si faceva il bucato
Ma quale era il procedimento per fare il bucato? La biancheria veniva messa in ammollo, poi spazzolata con il “ranno” che consisteva in cenere pulita da altre sostanze e che serviva per eliminare macchie e aloni. Si ripassava, poi con il sapone artigianale fatto di lisciva, e tante risciacquate nell’acqua del fiume o del lavatoio. Un lavoro duro che imponeva l’uso di forza delle mani e delle braccia, e lo stare in ginocchio al bordo del fiume per molte ore, con il caldo e con il freddo.
Le prime lavatrici
Con il tempo il lavoro di lavandaia iniziò ad essere un vero e proprio mestiere, nacquero ditte che scendevano in città a prendere i panni da lavare, che poi riconsegnavano puliti. Nel 1850 apparvero le prime lavatrici meccanizzate, con centrifughe a elica, rulli di gomma ai lati di enormi tinozze per strizzare velocemente la biancheria. Nonostante le prime lavatrici meccanizzate con la nascita dell’industria agli inizi del secolo, ancora oggi il lavoro di lavanderia si svolge nel paese di Grassina e Bagno a Ripoli per servire il turismo della città di Firenze. Arti e mestieri mai morti completamente che fanno parte del nostro più vero paesaggio (sono ancora tanti i lavatori rimasti in molti paesi).
In giro per L’Europa troviamo anche diversi musei dedicati alle lavandaie, i più importanti sono in Belgio, a Waux Hall e a San Giacomo, a Trieste. Un progetto molto ambizioso e di grande prospettiva di recupero lo sta effettuando il Comune di Capannori e la Regione Toscana per recuperare, tutelare, valorizzare conservare le nostre radici che passano anche, attraverso i “panni sporchi”.
Elena Tempestini